L’esercito dei lavapiatti digitali

Giugno 12th, 2015 § 0 comments § permalink

Alfonso Fuggetta ha recentemente pubblicato un articolo circostanziato sull’italica cronica mancanza di competenze medio-alte nell’ambito IT. La fotografia della situazione è azzeccata, tuttavia l’invocazione finale di un’azione salvifica da parte di un ipotetico pubblico di decisori imprenditoriali e politici mi sembra un po’ ingenua e vorrei provare a spiegare il mio punto di vista con un esempio.

Tra i lavori identificati dalla generica etichetta Core Professionals nel grafico “Composition of the ICT Workforce in Europe” citato da Fuggetta (l’originale a pag. 7 di questo documento) c’è la professione dello sviluppatore di software. La maturity di uno sviluppatore software è sostanzialmente rappresentabile in una scala salariale che mira a retribuire essenzialmente la complessità dei progetti che il lavoratore è in grado di affrontare.

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Fog in channel?

Giugno 7th, 2015 § 1 comment § permalink

«si evidenzia che la stessa [cookie law n.d.r.] riguarda tutti i siti che, a prescindere dalla presenza di una sede nel territorio dello Stato, installano cookie sui terminali degli utenti, utilizzando quindi per il trattamento “strumenti situati sul territorio dello Stato”»

— Il garante per la protezione dei dati personali

tNotice, la raccomandata che preoccupa

Luglio 2nd, 2014 § 11 comments § permalink

Recentemente ha ricevuto un certo risalto mediatico la startup tNotice, che promette di sostituire alla raccomandata cartacea un servizio elettronico alternativo alla famigerata PEC. Il resoconto giornalistico è più o meno su questo tenore:

Immaginate tNotice come uno sportello web. Il mittente, senza spostarsi da casa o dall’ufficio, si registra, inserisce i suoi dati, paga con carta di credito o prepagata e scrive il testo della raccomandata. Può aggiungere file di documenti o immagini e poi clicca invio. Al prezzo di poco più di un euro (1,23 più iva) la raccomandata digitale arriva in tempo reale sulla mail del destinatario che, come alla posta tradizionale, ha 30 giorni di tempo per la giacenza sulla sua mail, per registrarsi e per firmare la ricevuta di ricevimento con nome utente e password (che dalla normativa europea sono recepite come firma digitale).

A leggere questa sommaria descrizione, chiunque abbia un’infarinatura di concetti giuridici sarà rimasto perplesso: come fa il mittente a provare di aver effettivamente consegnato la propria missiva ad una casella di posta qualificata come domicilio del destinatario? Nemmeno le pagine “Come funziona” e “Per approfondire” del loro sito danno una risposta esaustiva a questa domanda.
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I cretini digitali

Maggio 21st, 2013 § 0 comments § permalink

Scrive Giuseppe Granieri su La Stampa che il problema degli intellettuali che non capiscono l’interwebs starebbe nello shift di paradigma da una cultura condotta top-down da pochi illuminati verso un approccio in cui l’onere di metabolizzare le informazioni è largamente condiviso.

Il problema di questa impostazione è che dà ottimisticamente per assodato che «tutti dobbiamo acquisire le competenze necessarie per imparare a trovare quel che ci serve». E non solo a trovare ciò che ci serve, ma a capire ciò che ci serve, senza che ce lo dica qualcun altro. Bello, ma se ciò non avviene, cosa succederà?

La scommessa, perché di scommessa si tratta, e non certezza, del Granieri-pensiero è che il risultato netto di questa eliminazione dell’ipse dixit sia complessivamente positivo. Gli intellettuali analogici, come li chiama lui, per la maggior parte non sono degli ignoranti digitali, è solo che danno un’occhiata alle statistiche sull’analfabetismo di ritorno citate da De Mauro e non riescono ad essere così ottimisti e faticano a concepire l’idea della trasmissione culturale per osmosi, senza kung-fu.

A me pare che questa scelta di allungare il vino con l’acqua per permettere un sorso a tutti non stia producendo i risultati sperati. In economia, quando si inflaziona il mercato con offerta di moneta a basso costo, si genera una distorsione dovuta alla proliferazione di attività economiche improduttive, che consumano risorse ma non aggiungono alcun valore reale. In termini tecnici si chiama ciclo “boom-bust”, bolle che si gonfiano fino a scoppiare. Ho la netta impressione che a livello culturale stiamo gonfiando una bolla di cui beneficiano principalmente le equities di Amazon e non abbiamo ben chiaro come si concretizzerà il bust.

In definitiva, per essere un intellettuale devi saper riconoscere un intellettuale: chi è senza cultura non è in grado di apprezzarla se la incontra. Quello che Granieri non chiarisce è come si supera questa fase di bootstrap. Nella storia dell’alfabetizzazione il contributo principale alla diffusione della cultura alle masse non si è determinato abbassando i costi di accesso ai media, ma attraverso l’istruzione obbligatoria. In pratica per fare la rivoluzione culturale con dei risultati apprezzabili è stata necessaria la coercizione.

Purtroppo ultimamente sull’istruzione non abbiamo potuto contare: la bolla della knowledge-for-everybody si è alimentata gonfiando artificialmente la durata del percorso di studi. Del resto, se l’università sforna dei leader, basta dare a tutti una laurea e avremo una nazione di leader, giusto? Peccato che ci stiamo avvicinando al punto di non ritorno: negli USA la bolla dei prestiti studenteschi, qui in Italia la disoccupazione giovanile record, sono segnali che abbiamo inflazionato il mercato con promozioni facili, conversioni creative di crediti e corsi di laurea in aromaterapia.

Falliremo? Non lo so, ma vorrei che chi è ottimista mettesse sul piatto una teoria un po’ più corposa di «vedrete che la mano nascosta del mercato risolverà il problema», perché è evidente che l’ignoranza è un’esternalità che genera grosse inefficienze.

P.S.: non riesco proprio a capire come si possono considerare intellettuali quelli che sdoganano la maleducazione secondo il ragionamento «se ruttano a casa loro, possono farlo anche in pubblico, che differenza c’è?».

Del nonnismo digitale

Maggio 12th, 2013 § 0 comments § permalink

Nella spiegazione della sua dipartita da Twitter, scrive Mentana che essendo contrario alla censura, la scelta obbligata per lui è stata di allontanarsi da un luogo digitale che non lo tutela. Da allora in rete si sta diffondendo una serie di commentari (es. Mantellini, Hai da spicciare?) che si potrebbero sintetizzare in «Mentana non ne capisce di Internet, lasciatelo perdere».
Nella loro arroganza, questi soloni non si rendono conto che stanno esplicitando la ristrettezza dei loro pensieri. Ristrettezza che a mio avviso è dovuta al fatto che per quanto essi siano su Internet da tempo, sono sempre stati semplici utenti dei servizi di comunicazione, magari “pro”, magari “early adopter”, ma comunque utenti che hanno ingoiato più o meno pedissequamente le scelte di architettura fatte da chi gestisce i sistemi. E ora per coerenza le osannano.

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Del perché le elezioni via Internet sono un’utopia

Aprile 12th, 2013 § 2 comments § permalink

Leggo dal blog di Uriel un interessante post su cosa non funziona nell’approccio di Grillo alla democrazia elettronica. Devo però dissentire da lui riguardo alla fase propositiva. Secondo Uriel, la soluzione da contrapporre al dilettantismo di Casaleggio & co. è la creazione di un sistema di sicurezza con tutti i crismi, progettato per proteggere le transazioni di voto a livello fisico e logico.

Il problema che si pone non è di natura pratica (“i carabinieri a guardia del rack”), ma di natura logica e non è aggirabile assumendo personale più qualificato o spendendo maggiori risorse. Se costruiamo un super-sistema di sicurezza con tecnologie avanzatissime per aggiungere tutte le possibili garanzie sulla segretezzaautenticità e integrità del voto, avremo come risultato un sistema trusted. In prima battuta si può pensare che ciò sia un fatto positivo, nel senso che ci si può fidare. Ma quell’aggettivo di origine anglosassone ha un duplice risvolto, quando si applica ai sistemi di computing trusted vuol dire che ci si deve fidare per forza. In altre parole, un siffatto sistema ha un livello di complessità tale che la comprensione di esso è al di fuori della portata dei normali cittadini.

È qui il punto di rottura nel paradosso logico in cui si incorre tentando di trasmutare dal voto cartaceo al voto via Internet: nel 2013 le elezioni vere, quelle che contano qualcosa, si fanno ancora con la carta, la matita, le urne di cartone, i registri e questo non perché acquistare dei server o pagare degli sviluppatori fosse troppo oneroso, ma per un motivo molto più basilare: la democrazia funziona se tutti possono controllare come funziona. E quando dico tutti intendo anche un cittadino che ha l’età per votare e la licenza di terza media.

Uriel costruisce profusamente dei parallelismi con i settori mission critical del business e del governo, ma la differenza sostanziale tra quel genere di applicazioni e le elezioni è che la nostra Costituzione garantisce la segretezza del voto e per garantire la segretezza di qualcosa con strumenti elettronici è necessario mettere in campo degli algoritmi crittografici che permettano di verificare che tutti i voti siano conteggiati e solo i voti validi, ma senza renderli univocamente riconducibili ai votanti. Questa cosa, che nel mondo analogico è molto semplice da realizzare, in quello digitale impone un livello di complessità che rende di fatto impossibile controllare il processo step-by-step senza compromettere il requisito di segretezza, e tuttavia senza un controllo step-by-step, le garanzie di integrità e autenticità sono forti quanto l’algoritmo che le difende.

È sufficiente scorrere la lista dei security bulletins sulle insicurezze dei sistemi di crittografia per rendersi conto delle molteplici minacce che rendono la crittografia uno strumento ancora molto distante dalle garanzie offerte da carta e penna. Anche ammesso che in un prossimo futuro si scopra l’algoritmo perfetto, rimane il problema che l’utente che lo utilizza non è in grado di comprenderlo appieno e di conseguenza è facile preda di chi ne vuole abusare. Oggi, nel 2013, svariati miei contatti Skype sono stati infettati da un virus che si diffondeva mandando il messaggio «è questo che in questa foto?» seguito da un link ad uno zip con dentro un eseguibile. Come si dice nel settore della sicurezza informatica, «there’s no patch for human stupidity».