Nella spiegazione della sua dipartita da Twitter, scrive Mentana che essendo contrario alla censura, la scelta obbligata per lui è stata di allontanarsi da un luogo digitale che non lo tutela. Da allora in rete si sta diffondendo una serie di commentari (es. Mantellini, Hai da spicciare?) che si potrebbero sintetizzare in «Mentana non ne capisce di Internet, lasciatelo perdere».
Nella loro arroganza, questi soloni non si rendono conto che stanno esplicitando la ristrettezza dei loro pensieri. Ristrettezza che a mio avviso è dovuta al fatto che per quanto essi siano su Internet da tempo, sono sempre stati semplici utenti dei servizi di comunicazione, magari “pro”, magari “early adopter”, ma comunque utenti che hanno ingoiato più o meno pedissequamente le scelte di architettura fatte da chi gestisce i sistemi. E ora per coerenza le osannano.
Così se l’ultimo arrivato nel Far West gli fa notare che la semi-anarchia digitale in cui vivono non è civiltà, lo impiccano o lo mettono alla gogna mediatica, perché loro hanno sempre vissuto così. Il fatto è che questo atteggiamento conservatore è proprio l’antitesi di ciò che rappresentano i gruppi di coloro che hanno progettato Internet come noi lo conosciamo (IETF, W3C, etc). Chi ha partecipato alle discussioni, chi ha contribuito alla standardizzazione, chi ha progettato strumenti, chi ha offerto servizi a milioni di utenti ha un atteggiamento che guarda al futuro, che pensa alla tecnologia come uno strumento per superare i limiti del singolo, del gruppo, del mezzo, dell’ambiente. Proprio il contrario di present is here to stay.
A questi cultori dei 140 caratteri che ti rispondono «It’s the Internet, baby.» e che imputano a Mentana di non aver speso qualche anno della sua vita a mettere in blacklist tutti i nickname che lo offendono, rispondo che la posta elettronica non avrebbe un livello di diffusione così pervasivo se i gestori non avessero sviluppato degli strumenti antispam che filtrano oltre il 99.9% del rumore. In pratica la libertà di utilizzo, la libertà di poter avere un account senza dichiarare le proprie generalità reali, è garantita da un sistema tecnologico probabilistico che permette di mantenere il rapporto segnale/rumore ad un livello accettabile senza bisogno di ricorrere a blacklist o whitelist nominative. Perfino i remailer anonimi, la frontiera digitale dell’anonimato, utilizzano dei software di controllo automatizzati per evitare che se ne possa abusare.
Già alla fine degli anni ’90, oltre una decade fa, siti di informazione come Slashdot implementavano algoritmi di moderazione distribuita come forma di compromesso tra leggibilità e libertà di espressione, superando la dicotomia censoria attraverso la classificazione dei commenti per tipologia di attitudine. Tecnologicamente parlando, Twitter a confronto è preistoria. Il vero merito di Twitter Inc. è di essere riuscita a ridurre ad epsilon il rapporto costo infrastruttura/numero di utenti e di aver condotto un’abile campagna di evangelizzazione in cui i limiti della piattaforma erano presentati come una virtù. Tutto il costo di gestire lo squelch è ribaltato sul singolo utente, con strumenti limitati e senza alcun criterio di redistribuzione, il che genera evidenti fibrillazioni ai margini della scala della popolarità.
L’avvento dei social network ha rappresentato un’evoluzione perché ha permesso di sperimentare le forme di interrelazione tipiche di Internet su una scala più vasta, impiegando una larga fetta dell’innovazione sull’efficienza del trattamento dei big data. Purtroppo il costo nascosto di questo trend è di aver accentrato il governo delle dinamiche della comunicazione nelle mani di pochi big player per i quali il concetto che da un grande potere derivi una grande responsabilità non vale affatto. Questi ultimi costituiscono dei veri leviatani che racchiudono in un’unica personalità la definizione di regole spesso illiberali e l’applicazione insindacabile e non equanime delle medesime. Il tutto in un contesto in cui è sempre più stridente il contrasto tra aziende che non sono affatto neutrali nel trattamento delle informazioni e legislazioni nazionali che appoggiano il vincolo di responsabilità proprio sulla neutralità del trattamento (vedi alla voce «dirigenti di Google Italia condannati per i video offensivi su Youtube»).
In un contesto in cui non esiste una sostanziale forma di rappresentanza degli interessi degli utenti e in cui la gestione del rapporto è affidata a terms of service sostanzialmente vessatori, è necessario che le entità principali che difendono gli interessi dei consumatori a livello internazionale si mobilitino in modo analogo a quanto è stato fatto sul fronte dell’antitrust. Soluzioni tecnologiche che migliorino la qualità della convivenza esistono e potrebbero essere adottate, ma affinché ciò avvenga è necessario che tali enti contrappongano gli interessi della comunità agli interessi degli azionisti di Twitter Inc.
La profonda tristezza è che di fronte a queste criticità e al fatto che alcune persone con un certo grado di notorietà facciano notare che non va tutto bene, coloro che dovrebbero a rigor di logica sostenere il progresso si complimentano coi signori dei social network per aver inventato un sistema in cui si può cagare nella pentola in cui si fa da mangiare, grazie all’encomiabile evoluzione dell’economicità di usare un unico contenitore per tutto.
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