Qualche settimana fa, un’amica in visita in un paese asiatico ha testimoniato su Facebook il proprio stupore per essersi riscoperta in qualche modo razzista nei confronti della popolazione locale. Si trattava di un sentimento a pelle. Ha scritto:
«Incredibilmente, almeno per me, ho scoperto di essere razzista. E no… è che è qualcosa di interiore ed irrazionale e fortissimo. Ci vuole tutta la razionalità e controllo del proprio sentire per tenerlo a bada. Sono basita.»
Penso che ci voglia molto coraggio e capacità di autoanalisi per fare un’ammissione del genere. La realtà è che lei non è da sola, perché siamo tutti razzisti, inevitabilmente. Il punto è solamente cosa vogliamo fare a riguardo.
L’ammissione della propria natura è un primo passo importante per capire i meccanismi con cui essa si insinua e ci condiziona, mentre ho l’impressione che non di rado la società s’illuda che attraverso l’uso pedagogico di informazioni traumatiche e l’evoluzione dei costumi, si possa dichiarare estinto il pericolo.
La scorsa settimana ho visitato Berlino assieme alla mia compagna. Abbiamo camminato decine di chilometri in tutti i luoghi simbolo del nazismo, della Shoah, della persecuzione politica, di muri che spezzano delle vite, dello sterminio di oppositori politici, disabili, omosessuali, soldati, profughi, fuggiaschi, persone qualunque, da parte di chiunque. Abbiamo letto ogni singola targhetta, abbiamo ascoltato ogni numero delle audioguide, abbiamo seguito ogni tappa di questa infinita via crucis di morti, abbiamo pagato ogni biglietto di questo parco a tema dell’Orrore umano che è Berlino.
Tutto questo Orrore, concentrato in una volta, chiede solo silenzio.
E quando abbiamo finalmente rifatto le valigie (dico finalmente perché ci siamo portati a casa dei macigni oltre ai vestiti, ma è stato necessario), quando siamo tornati a casa, ho ripensato alla questione di ammettere la propria natura. Questa attitudine educativa del “mai più quest’Orrore”, di cui molti luoghi a Berlino sono intrisi, punta all’uso del trauma per farci sentire estranei, punta a farci prendere le distanze.
Ma purtroppo non sta funzionando. Il Mediterraneo è un immenso muro di Berlino fatto d’acqua, eppure il nostro comportamento accetta impassibile delle eccezioni rispetto alla Fraternité che sarebbe auspicabile da parte di chi sta meglio. Se ce ne andiamo da Berlino con in tasca la presunzione di essere meglio dei carnefici, non avremo imparato nulla.
Quello che ho imparato a Berlino è che l’ammissione della propria natura è necessaria: se fossi nato nella prima metà del secolo in Germania, probabilmente sarei stato nazista, come sarei stato fascista se fossi nato in Italia nel medesimo periodo. È una ideologia affascinante, un’idea di società che ti fa sentire parte di qualcosa. La Volksgemeinschaft è un concetto pervasivo e sotterraneamente presente anche in molte comunità odierne. Suggerisco la visione del film Die Welle a chi vuole farsi un’idea di come funziona.
In Italia ci si preoccupa che qualche ministro dell’istruzione dal passato di destra possa favorire il revisionismo storico, ma la retorica dell’antifascismo non è meno revisionista: ridicolizzare la propaganda dell’epoca non aiuta ad immedesimarsi, a capire come un certo tipo di messaggio possa essere accolto senza riserve. Vincere e vinceremo: sarei stato senz’altro lì sotto ad applaudire. È necessario conoscere la parte nazista che alberga in ciascuno di noi, se vogliamo combatterla con successo.
Potrei essere nazista e ho deciso di fare qualcosa a riguardo.