Maggio 7th, 2013 § § permalink
Gira sul social network un’infografica sulla spesa pubblica per l’istruzione comparata tra i vari paesi, accompagnata dalla seguente descrizione: «Italia: agli ultimi posti in Europa negli investimenti in cultura e istruzione. I risultati si vedono: tragici. Sotto ogni punto di vista.»
Ottimo per il colpo d’occhio e la viralità, ma fallace nella sostanza: il rapporto “spesa pubblica per istruzione su spesa pubblica totale” non ci dice quanto spendiamo in istruzione, ma quanta parte della spesa è dedicata all’istruzione. Come ogni rapporto dipende da un numeratore e un denominatore, ma rispetto a molti altri paesi europei non è il numeratore ad essere minore, bensì il denominatore ad essere più corposo: in Italia la previdenza pubblica spende in pensioni più di qualsiasi altro paese europeo, complice la durata della vita più lunga.
Se avessimo scelto un indicatore più onesto, come ad esempio quello individuato da Eurostat, cioè la spesa pubblica per studente a parità di potere d’acquisto, scopriremmo che l’Italia è poco sotto la media UE e che Lituania e Lettonia, paesi in cima alla classifica riportata nell’infografica, in realtà spendono la metà di quanto spende l’Italia; l’Estonia, seconda nella tabella dell’infografica, in realtà spende due terzi di quanto spende l’Italia per ciascuno studente.
Una cosa è certa: se perfino commentatori navigati cadono in questi banali tranelli della statistica, evidentemente l’istruzione in Italia non sta facendo un buon lavoro, a prescindere da quanti soldi ci si rovesciano dentro.
Maggio 4th, 2013 § § permalink
Il primo maggio scorso è stata mia commensale una professoressa di materie umanistiche, persona che considero integerrima. Durante la conversazione post-prandiale ho avuto occasione di esprimere le mie perplessità circa la levata di scudi delle sue colleghe contro le prove INVALSI: a mio avviso in quelle dichiarazioni di guerra all’INVALSI c’è un atteggiamento molto auto-indulgente e una visione della scuola antitetica al sistema competitivo che regola (o dovrebbe regolare) il mondo del lavoro.
Vi riporto per sommi capi la sua risposta:
- Nelle prove INVALSI tenute l’anno precedente durante gli esami di terza media, il tempo necessario per la correzione è stato di circa 3 ore e mezza. In pratica la cosa si è risolta in un pomeriggio.
- Rispetto ad una prova d’esame classica, la prova INVALSI prevede una procedura a salvaguardia della correttezza dei risultati che implica alcuni tempi di attesa.
- Da una consultazione tra colleghi del medesimo istituto è emerso che gli esiti delle prove INVALSI sono risultati i più aderenti all’effettivo grado di preparazione degli studenti, a differenza delle altre prove d’esame nelle quali alcuni studenti sono stati aiutati in quanto si era deciso in sede di scrutinio che andassero aiutati.
- La principale criticità riguarda gli studenti stranieri, tuttavia non si tratta di un limite specifico di INVALSI, bensì di un problema generale di come viene (non) trattata l’integrazione di studenti che hanno iniziato il corso di studi in un’altra nazione.
Considerazione del sottoscritto: alla luce di queste informazioni, sembra ancora più capziosa la polemica circa i costi sostenuti per l’instaurazione di un sistema esterno di valutazione e la critica principale nel merito della metodologia di valutazione appare come un’insofferenza verso sistemi che fotografano la situazione reale senza aggiustamenti.
Maggio 1st, 2013 § § permalink
Aumenta la disoccupazione.
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La disoccupazione dipende dal fatto che l’economia è depressa.
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L’economia è depressa da una pressione fiscale troppo elevata.
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La pressione fiscale dipende dalla necessità di ripianare un debito troppo alto in proporzione al PIL.
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Il PIL, denominatore del rapporto, dipende (anche) dalla produttività delle imprese.
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Un giorno di ferie riduce la produttività delle imprese che lavorano a pieno regime¹.
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Il PIL cresce un po’ meno.
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Le tasse si possono ridurre un po’ meno.
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La disoccupazione aumenta.
¹ prima che lo facciate notare, lo so: molte imprese lavorano a singhiozzo perché c’è la crisi. Per quelle non farebbe differenza: ci sono già tanti primo maggio chiamati cassa integrazione. Tuttavia l’Italia che ci porterà fuori dal baratro è fatta di imprese che esportano, che lavorano su mercati globali e che investono in ricerca e sviluppo.