Recentemente ho partecipato ad una discussione on-line relativa al caso di un professore di scuola superiore che, durante le lezioni, oltre ad insegnare la propria materia, si lasciava andare a commenti di natura negazionista e razzista.
Tra i partecipanti alla discussione, i docenti erano tutti concordi nel sostenere che ben poco si può fare per limitare queste situazioni, giacché la Costituzione garantisce la libertà d’insegnamento e certamente non si può impedire a qualcuno di avere delle opinioni.
Ecco, questo post è per sostenere che tale impostazione di pensiero è una sonora asinata.
La libertà d’insegnamento è diventata al giorno d’oggi un mantello generalizzato di protezione, stiracchiato alla bisogna dagli insegnanti per proteggersi da qualsiasi forma d’intromissione nel rapporto tra docente e studente. Viene agitato come diritto universale costituzionalmente acquisito, in modo da poter accusare di fascismo chiunque auspichi una forma di controllo sull’operato dei docenti.
Tale interpretazione della norma costituzionale è, appunto, solo un’interpretazione radicale e anarchica del concetto di libertà, che non coincide affatto con le intenzioni di chi animò il dibattito in sede di stesura. Il testo del primo comma dell’articolo 33 della Costituzione Italiana, che sancisce il diritto alla libertà d’insegnamento, recita così:
L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento.
Il primo estensore di questa prescrizione fu Concetto Marchesi, del Partito Comunista Italiano, e tale rimase immutata nella stesura finale. Nel corso della discussione della prima sottocommissione dell’Assemblea Costituente, il 22 Ottobre 1946, ovvero il giorno prima che tale norma fosse approvata, Marchesi intervenne affermando che:
Io e i colleghi di parte comunista siamo disposti a riconoscere la piena Iibertà della scuola privata e l’utilità della concorrenza dell’istruzione privata, e saremmo disposti non solo a riconoscere, ma a sussidiare anche le scuole religiose, quando esse esercitino l’insegnamento in luoghi dove manchino pubblici istituti di istruzione. Quello che importa è che la cultura sia diffusa tra il popolo, qualunque sia l’insegna sotto la quale essa viene impartita; ma è anche necessario affermare in un articolo isolato la precipua funzione educativa dello Stato.
Il grassetto è mio. Il punto è proprio il concetto di educazione, che va oltre il semplice insegnamento della storia e della geografia. È innanzitutto un insegnamento morale, è l’insegnamento di valori condivisi. Evidentemente non è una materia di studio, ma è perfino più importante delle materie di studio, perché si tratta dei mattoni su cui si costruisce la nazione.
Purtroppo questa è una campana che sentono in pochi, tra i docenti e i maestri che oggi popolano le aule scolastiche. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Il rispetto per la figura del docente è ai minimi storici e spesso si sente parlare di docenti che “non sanno farsi rispettare”, senza che sia mai chiarito quale sia la strategia per ottenere il rispetto senza che sia solo un riflesso del timore. La realtà è che se il ruolo del docente si esaurisce semplicemente nel fornire informazioni ed addestrare gli alunni al raggiungimento di competenze, non si costruisce alcun piano valoriale comune, né si riconosce il ruolo di rappresentanza dell’istituzione, giacché non ci può essere rappresentanza senza responsabilità.
Invece, la responsabilità educativa è addossata unicamente alle famiglie, privando così gli allievi di quella speranza di uguaglianza sociale sancita dall’articolo 3 della Carta. Marchesi, a cui sono intitolate molte scuole della Repubblica, chiarì il punto nel prosieguo del proprio intervento:
Osservo che nella relazione dell’onorevole Moro si manifesta la tendenza a mettere la famiglia in una posizione preminente per quanto riguarda l’istruzione. Mi sembra che questa consacrazione della famiglia tenda a considerare il nucleo domestico familiare come un organismo che viva in una specie di mondo sublunare, in un’atmosfera di immobile serenità, non esposto alla molteplicità degli urti che in realta lo turbano, sino a farne talvolta un centro di disordine economico e morale in cui purtroppo il fanciullo è la vittima principale. D’altra parte mi sembra che questo dissidio tra famiglia e Stato non possa e non debba esistere. Lo Stato è la grande famiglia che deve integrare le forze, a volta difettose, dell’istituto familiare. Questa antitesi che si vuol porre tra famiglia e Stato e assolutamente inopportuna, sia nei riguardi politici, sia nei riguardi morali e sociali.
Ergo, se lo Stato non può e non deve sottrarsi al ruolo educativo che, nelle parole di Marchesi, è “l’unico strumento e l’unica garanzia dell’unità nazionale”, gli insegnanti della scuola di Stato devono essere capaci di educare, di realizzare la vera educazione civica, che non si limita certo ad insegnare la burocrazia istituzionale. Ne consegue che non possono essere considerati insegnanti qualificati coloro che in prima persona non credono nei valori della Carta Costituzionale, che con le parole e con i comportamenti dimostrano di adottare ideali fascisti.
Giuseppe Dossetti, della Democrazia Cristiana, anch’egli parte attiva della medesima sottocommissione, aveva già posto la questione nel dibattito costituente durante la sessione antecedente:
Incidentalmente (Marchesi n.d.r.) ha parlato di una finalizzazione di questa libertà (di insegnamento n.d.r.), come di tutte le altre, ma senza attribuire a questa un significato prevalente, e senza volerle dare un carattere diverso da quello che e stato dato per altre libertà, che anche l’onorevole Marchesi ha accettato, per esempio la libertà di stampa. D’altra parte, non può intendersi la libertà della scuola in termini cosi assoluti e radicali da ammettere, per esempio, che nella scuola di uno Stato democratico si possa far professione di idee fasciste.
No, la libertà d’insegnamento non è una libertà assoluta. È una libertà che, nelle parole della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, deve:
essere indirizzata al pieno sviluppo della personalità umana ed al rafforzamento del rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Essa deve promuovere la comprensione, la tolleranza, l’amicizia fra tutte le Nazioni, i gruppi razziali e religiosi, e deve favorire l’opera delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace.
Come per i magistrati esiste un codice di disciplina che definisce dei criteri di incompatibilità, al fine di renderli nemmeno lontanamente sospettabili di non servire fedelmente la Repubblica, così è necessario per le persone a cui lo Stato affida per molti anni di vita la propria progenie.
La progressiva perdita del ruolo educativo della scuola è in parte una questione di lassismo delle istituzioni, ma è anche sostenuta da una specifica corrente di pensiero (qualcuno direbbe “figlia del ’68”, ma io nel ’68 non c’ero, perciò non saprei) che ritiene che una volta instaurata la democrazia, essa possa sopravvivere indefinitamente senza essere insegnata a coloro che l’hanno ricevuta in dono e non l’hanno conquistata col sangue. Secondo i sostenitori di questa tesi, i nuovi figli della Repubblica nascono già col gene della democrazia e non occorre che lo Stato s’impegni attivamente a mantenere vivo l’ideale democratico, giacché la società nel suo complesso assolve a questa funzione semplicemente dotandoli di cultura storica, ignorando che proprio la storia insegna come, di fronte alle difficoltà, l’uomo abdica alla ragione per via della paura.
Alcuni alternativamente sostengono che il ruolo educativo della scuola è inutile, giacché le menti dei ragazzi in età scolare non sarebbero influenzabili dai docenti al punto di considerarli dei modelli educativi. Un secolo di pedagogia buttato nel cesso.
Purtroppo, a giudicare dalla recrudescenza di fenomeni neofascisti in questi ultimi anni e considerando come persone che incarnano tutt’altro che gli ideali della Costituzione abbiano ottenuto il favore di larga parte della popolazione e addirittura abbiano raggiunto i vertici istituzionali, c’è da preoccuparsi non poco dei danni che questa anarchia educativa ha prodotto nelle ultime generazioni.