Nella spiegazione della sua dipartita da Twitter, scrive Mentana che essendo contrario alla censura, la scelta obbligata per lui è stata di allontanarsi da un luogo digitale che non lo tutela. Da allora in rete si sta diffondendo una serie di commentari (es. Mantellini, Hai da spicciare?) che si potrebbero sintetizzare in «Mentana non ne capisce di Internet, lasciatelo perdere».
Nella loro arroganza, questi soloni non si rendono conto che stanno esplicitando la ristrettezza dei loro pensieri. Ristrettezza che a mio avviso è dovuta al fatto che per quanto essi siano su Internet da tempo, sono sempre stati semplici utenti dei servizi di comunicazione, magari “pro”, magari “early adopter”, ma comunque utenti che hanno ingoiato più o meno pedissequamente le scelte di architettura fatte da chi gestisce i sistemi. E ora per coerenza le osannano.
Del nonnismo digitale
Maggio 12th, 2013 § 0 comments § permalink
Cento frecce sulla risposta sbagliata
Maggio 11th, 2013 § 2 comments § permalink
Ieri mattina ho letto un tweet di Peppe Liberti che si lamentava di «quelli che approfittano di qualunque occasione per dire che internet son loro e gli altri non capiscono niente». Ce l’aveva con Mantellini. Poi nel pomeriggio ho letto un superbo (nel senso di presuntuoso) j’accuse del medesimo autore intitolato Il metro delle prove INVALSI, nel quale ci ragguaglia sul fatto che l’esperto di didattica è lui, mentre quelli di INVALSI non capiscono niente (e cazzeggiano troppo).
Ritengo che se vogliamo elevare la discussione pubblica oltre il Bar Sport, bisognerebbe evitare di profondersi in invettive basate su illazioni e mantenere i dubbi al rango di dubbi, senza svalutarne l’utilità. La macchina del fango prende sempre un sacco di like all’inizio, ma se poi non si è attrezzati a sostenere le accuse, si fa la figura dei cretini. Siccome Peppe Liberti cretino non è, anzi è un ottimo divulgatore scientifico, la critica al suo commento non è tempo sprecato.
Il motivo del contendere è una domanda del test somministrato ai bambini della classe seconda della scuola primaria, un test che potremmo considerare col trabochetto: la domanda pone una serie di condizioni logiche ben delineate, mentre la figura può risultare fuorviante per l’intuito di un bambino di 7 anni. Peppe si scaglia contro gli autori del test, rei a suo dire di non aver posto sufficiente attenzione nella formulazione dell’illustrazione al fine di minimizzare il rischio di incomprensione.
Innanzitutto, perché Peppe si concentra proprio su questa domanda? Dice lui: «a quanto pare, da quello che sto leggendo in queste ore in giro, è che a dare la risposta giusta son stati in pochissimi». È questo il primo errore concettuale: se lo scopo di INVALSI è una rilevazione statistica, come si può fondare un argomento sul sentito dire che precede di molto la pubblicazione di risultati ufficiali? Ammesso che vi sia un’anomalia nel rapporto tra la domanda e il tipo di risultato atteso, essa dovrebbe essere desunta da indicatori statistici che tuttavia allo stato attuale non sono ancora disponibili. In realtà la situazione è ancora più drastica: la critica arriva in maniera più solerte del documento che dovrebbe chiarire quali sono i risultati attesi.
C’è poi una questione di contenuto: Peppe inserisce l’immagine fuorviante nel contesto della propria esperienza professionale nell’ambito dei libri scolastici, nei quali spesso capita che le illustrazioni risultino ambigue, ma è proprio questo accostamento a determinare il secondo errore concettuale: mentre nell’ambito dei libri di testo sarebbe deprecabile inserire immagini fuorvianti di proposito o per inettitudine, nell’ambito dei test che misurano la capacità di ragionare, è normale l’introduzione di elementi che rendano più difficile individuare la risposta corretta per intuito. Il motivo è semplice: nella vita incontriamo continuamente fenomeni il cui comportamento è controintuitivo, perciò saper ragionare senza farci trarre in inganno dalle apparenze è fondamentale.
Per dirla con Guybrush Threepwood, eroe del lateral thinking, la X sulla mappa non è sempre il punto dove scavare.
In tutta franchezza, non so se quell’immagine sia stata coniata così di proposito o se si tratti di una svista. Non lo so per il semplice motivo che non sono ancora disponibili i razionali redatti da chi ha prodotto i test. Posso fare un’ipotesi plausibile, basandomi sul fatto che i documenti tecnici dell’anno precedente citano espressamente le medesime metodologie con tanto di accurati riferimenti alla teoria e sul fatto che i test, prima di essere somministrati in via ufficiale, sono già stati provati empiricamente su un campione di riferimento piuttosto esteso. Rimane il fatto che una svista è sempre possibile. Per Peppe Liberti invece non c’è dubbio, la svista è fatto certo e la letteratura è irrilevante: è proprio questa supponenza a determinare la debolezza della sua argomentazione. Anche ammesso che la svista ci sia, desumerlo alle condizioni attuali implica basarsi su speculazioni che certo non giustificano un atteggiamento così tranchant.
INVALSI si occupa di realizzare dei test che dovrebbero misurare statisticamente la capacità di utilizzare alcuni strumenti del ragionamento da parte degli studenti italiani di determinate classi. Strumenti che, ça va sans dire, sono indispensabili per formare future generazioni di persone consapevoli. È quantomeno ironico che sia proprio INVALSI a ricevere un attacco classificabile come critica supportata da elementi concettuali insufficienti, ovvero quel genere di aberrazione del pensiero che la scuola dovrebbe contribuire ad eliminare.
Giocare coi numeri: la spesa per l’istruzione
Maggio 7th, 2013 § 0 comments § permalink
Gira sul social network un’infografica sulla spesa pubblica per l’istruzione comparata tra i vari paesi, accompagnata dalla seguente descrizione: «Italia: agli ultimi posti in Europa negli investimenti in cultura e istruzione. I risultati si vedono: tragici. Sotto ogni punto di vista.»
Ottimo per il colpo d’occhio e la viralità, ma fallace nella sostanza: il rapporto “spesa pubblica per istruzione su spesa pubblica totale” non ci dice quanto spendiamo in istruzione, ma quanta parte della spesa è dedicata all’istruzione. Come ogni rapporto dipende da un numeratore e un denominatore, ma rispetto a molti altri paesi europei non è il numeratore ad essere minore, bensì il denominatore ad essere più corposo: in Italia la previdenza pubblica spende in pensioni più di qualsiasi altro paese europeo, complice la durata della vita più lunga.
Se avessimo scelto un indicatore più onesto, come ad esempio quello individuato da Eurostat, cioè la spesa pubblica per studente a parità di potere d’acquisto, scopriremmo che l’Italia è poco sotto la media UE e che Lituania e Lettonia, paesi in cima alla classifica riportata nell’infografica, in realtà spendono la metà di quanto spende l’Italia; l’Estonia, seconda nella tabella dell’infografica, in realtà spende due terzi di quanto spende l’Italia per ciascuno studente.
Una cosa è certa: se perfino commentatori navigati cadono in questi banali tranelli della statistica, evidentemente l’istruzione in Italia non sta facendo un buon lavoro, a prescindere da quanti soldi ci si rovesciano dentro.
INVALSI: confessioni di una professoressa
Maggio 4th, 2013 § 17 comments § permalink
Il primo maggio scorso è stata mia commensale una professoressa di materie umanistiche, persona che considero integerrima. Durante la conversazione post-prandiale ho avuto occasione di esprimere le mie perplessità circa la levata di scudi delle sue colleghe contro le prove INVALSI: a mio avviso in quelle dichiarazioni di guerra all’INVALSI c’è un atteggiamento molto auto-indulgente e una visione della scuola antitetica al sistema competitivo che regola (o dovrebbe regolare) il mondo del lavoro.
Vi riporto per sommi capi la sua risposta:
- Nelle prove INVALSI tenute l’anno precedente durante gli esami di terza media, il tempo necessario per la correzione è stato di circa 3 ore e mezza. In pratica la cosa si è risolta in un pomeriggio.
- Rispetto ad una prova d’esame classica, la prova INVALSI prevede una procedura a salvaguardia della correttezza dei risultati che implica alcuni tempi di attesa.
- Da una consultazione tra colleghi del medesimo istituto è emerso che gli esiti delle prove INVALSI sono risultati i più aderenti all’effettivo grado di preparazione degli studenti, a differenza delle altre prove d’esame nelle quali alcuni studenti sono stati aiutati in quanto si era deciso in sede di scrutinio che andassero aiutati.
- La principale criticità riguarda gli studenti stranieri, tuttavia non si tratta di un limite specifico di INVALSI, bensì di un problema generale di come viene (non) trattata l’integrazione di studenti che hanno iniziato il corso di studi in un’altra nazione.
Considerazione del sottoscritto: alla luce di queste informazioni, sembra ancora più capziosa la polemica circa i costi sostenuti per l’instaurazione di un sistema esterno di valutazione e la critica principale nel merito della metodologia di valutazione appare come un’insofferenza verso sistemi che fotografano la situazione reale senza aggiustamenti.
Tout se tient: Primo maggio
Maggio 1st, 2013 § 0 comments § permalink
Aumenta la disoccupazione.
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La disoccupazione dipende dal fatto che l’economia è depressa.
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L’economia è depressa da una pressione fiscale troppo elevata.
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La pressione fiscale dipende dalla necessità di ripianare un debito troppo alto in proporzione al PIL.
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Il PIL, denominatore del rapporto, dipende (anche) dalla produttività delle imprese.
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Un giorno di ferie riduce la produttività delle imprese che lavorano a pieno regime¹.
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Il PIL cresce un po’ meno.
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Le tasse si possono ridurre un po’ meno.
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La disoccupazione aumenta.
¹ prima che lo facciate notare, lo so: molte imprese lavorano a singhiozzo perché c’è la crisi. Per quelle non farebbe differenza: ci sono già tanti primo maggio chiamati cassa integrazione. Tuttavia l’Italia che ci porterà fuori dal baratro è fatta di imprese che esportano, che lavorano su mercati globali e che investono in ricerca e sviluppo.
L’asterisco
Aprile 29th, 2013 § 0 comments § permalink
Sulla scheda elettorale dovrebbero mettere un asterisco vicino ai simboli dei partiti. A quanto pare, se c’è bisogno di ricordare ai consumatori che i medicinali possono avere effetti collaterali anche gravi e ai risparmiatori che le performance passate non costituiscono una garanzia di rendimenti futuri, allora c’è sicuramente bisogno di una noticina in calce per ricordare agli elettori che per governare da soli bisogna vincere le elezioni.
È sicuramente necessario ricordarlo agli elettori del centrosinistra, i quali ahimé ritenevano che a prescindere dal risultato delle urne, le uniche opzioni sul tavolo fossero vincere da soli o rigiocare la partita all’infinito finché non si fosse vinto di misura o riconsegnato il Paese nelle mani di Berlusconi. Ipotesi quest’ultima assai probabile, se il partito che anela ai voti degli italiani si dimostra talmente immaturo da provocare uno stallo politico-istituzionale durante la peggiore congiuntura economica dal dopoguerra, pur di non scendere a patti col nemico.
Scriviamo quindi dei nuovi slogan con l’asterisco: «Mai con Berlusconi! (*se ci date abbastanza voti)», così almeno sarà accontentata la correttezza comunicativa e potremo finalmente assistere al ritorno in pompa magna di Berlusconi al governo, per mano di quelli che avranno negato i propri voti al PD nel timore che qualora quest’ultimo non dovesse prendere abbastanza voti, potrebbe decidere di governare assieme a chi ci sta.
Per gli adulti, invece, la magra soddisfazione di aver ottenuto un risultato migliore di quanto ci si attendeva con questi numeri.
I dieci pilastri della saggezza economica
Aprile 26th, 2013 § 0 comments § permalink
Riporto la traduzione in italiano di un decalogo dei principi base dell’economia di mercato, spesso insegnato nelle università statunitensi. L’autore originale è sconosciuto, tuttavia pare che la prima apparizione di questo testo risalga ad una stampa su 10 placche nella Hall of Free Enterprise dell’esposizione internazionale di New York City del 1964.
- Nulla nel nostro mondo materiale può generarsi dal nulla, né può essere gratuito; tutto nella nostra vita economica ha una sorgente, una destinazione e un costo che deve essere pagato — da qualcuno.
- Il governo non è mai una sorgente di beni. Tutto ciò che si produce è prodotto dal popolo e tutto ciò che il governo dà al popolo, deve prima prenderlo dal popolo.
- L’unico denaro di valore che il governo può spendere è denaro tassato o preso a prestito dai risparmi della gente. Quando il governo decide di spendere più di quello che ha così ricevuto, il denaro extra non guadagnato è creato dal nulla, attraverso le banche o le tipografie e quando viene speso, prende valore solo riducendo il valore di tutto il restante denaro, risparmi e assicurazioni.
- Nella nostra moderna economia di scambio, i salari e l’occupazione derivano dai clienti e l’unica forma di garanzia del lavoro è la conservazione dei clienti. Se non ci sono clienti, non ci possono essere salari e lavoro.
- Il lavoratore può garantire la conservazione dei clienti solo quando coopera con la direzione nel realizzare soluzioni che conquistino e mantengano clienti. La sicurezza del lavoro, quindi, è un problema di collaborazione che può essere risolto solo nello spirito di comprensione e cooperazione.
- Essendo i salari il principale costo di tutto, aumenti generalizzati dei salari senza un corrispondente aumento della produttività semplicemente aumentano il costo della vita di tutti.
- Il maggior benessere per il maggior numero significa il massimo dei beni per il maggior numero, che in definitiva significa la più alta produttività per lavoratore.
- La produttività si basa su tre fattori: (a) risorse naturali, la cui forma, luogo e condizioni sono cambiate spendendo (b) forza lavoro (fisica e mentale), con l’aiuto di (c) strumenti.
- Gli strumenti sono l’unico di questi tre fattori che l’uomo può accrescere senza limiti e gli strumenti entrano a far parte di una società libera solo quando c’è una ricompensa per la porzione di guadagni che le persone devono temporaneamente investire nella produzione di nuovi strumenti anziché utilizzare per produrre confort immediato. Un pagamento adeguato per l’uso degli strumenti è essenziale per la loro creazione.
- La produttività degli strumenti, ovvero l’efficienza della forza lavoro applicata in connessione col loro uso, è sempre stata massima nelle società competitive in cui le decisioni economiche erano prese liberamente da milioni di individui alla ricerca del progresso, piuttosto che in società controllate dallo stato in cui tali decisioni sono prese da un ristretto gruppo di persone plenipotenziarie, a prescindere da quanto fossero generose, sincere e intelligenti.
Del perché le elezioni via Internet sono un’utopia
Aprile 12th, 2013 § 2 comments § permalink
Leggo dal blog di Uriel un interessante post su cosa non funziona nell’approccio di Grillo alla democrazia elettronica. Devo però dissentire da lui riguardo alla fase propositiva. Secondo Uriel, la soluzione da contrapporre al dilettantismo di Casaleggio & co. è la creazione di un sistema di sicurezza con tutti i crismi, progettato per proteggere le transazioni di voto a livello fisico e logico.
Il problema che si pone non è di natura pratica (“i carabinieri a guardia del rack”), ma di natura logica e non è aggirabile assumendo personale più qualificato o spendendo maggiori risorse. Se costruiamo un super-sistema di sicurezza con tecnologie avanzatissime per aggiungere tutte le possibili garanzie sulla segretezza, autenticità e integrità del voto, avremo come risultato un sistema trusted. In prima battuta si può pensare che ciò sia un fatto positivo, nel senso che ci si può fidare. Ma quell’aggettivo di origine anglosassone ha un duplice risvolto, quando si applica ai sistemi di computing trusted vuol dire che ci si deve fidare per forza. In altre parole, un siffatto sistema ha un livello di complessità tale che la comprensione di esso è al di fuori della portata dei normali cittadini.
È qui il punto di rottura nel paradosso logico in cui si incorre tentando di trasmutare dal voto cartaceo al voto via Internet: nel 2013 le elezioni vere, quelle che contano qualcosa, si fanno ancora con la carta, la matita, le urne di cartone, i registri e questo non perché acquistare dei server o pagare degli sviluppatori fosse troppo oneroso, ma per un motivo molto più basilare: la democrazia funziona se tutti possono controllare come funziona. E quando dico tutti intendo anche un cittadino che ha l’età per votare e la licenza di terza media.
Uriel costruisce profusamente dei parallelismi con i settori mission critical del business e del governo, ma la differenza sostanziale tra quel genere di applicazioni e le elezioni è che la nostra Costituzione garantisce la segretezza del voto e per garantire la segretezza di qualcosa con strumenti elettronici è necessario mettere in campo degli algoritmi crittografici che permettano di verificare che tutti i voti siano conteggiati e solo i voti validi, ma senza renderli univocamente riconducibili ai votanti. Questa cosa, che nel mondo analogico è molto semplice da realizzare, in quello digitale impone un livello di complessità che rende di fatto impossibile controllare il processo step-by-step senza compromettere il requisito di segretezza, e tuttavia senza un controllo step-by-step, le garanzie di integrità e autenticità sono forti quanto l’algoritmo che le difende.
È sufficiente scorrere la lista dei security bulletins sulle insicurezze dei sistemi di crittografia per rendersi conto delle molteplici minacce che rendono la crittografia uno strumento ancora molto distante dalle garanzie offerte da carta e penna. Anche ammesso che in un prossimo futuro si scopra l’algoritmo perfetto, rimane il problema che l’utente che lo utilizza non è in grado di comprenderlo appieno e di conseguenza è facile preda di chi ne vuole abusare. Oggi, nel 2013, svariati miei contatti Skype sono stati infettati da un virus che si diffondeva mandando il messaggio «è questo che in questa foto?» seguito da un link ad uno zip con dentro un eseguibile. Come si dice nel settore della sicurezza informatica, «there’s no patch for human stupidity».
Gli anticorpi della democrazia
Marzo 8th, 2013 § 0 comments § permalink
Si dice che l’origine della saggezza stia nella capacità di conservare il dubbio. Alla luce degli ultimi avvenimenti, alcuni dubbi su Grillo & Casaleggio affiorano. Da un lato c’è un’opera sotterranea di rivalutazione del passato: il pasticcio con le firme per il referendum nel 2008 è stata mera inettitudine del suo staff o è stato un modo per polarizzare il soon-to-be elettorato? Dall’altro mi chiedo: concentrare l’attenzione sulla forma fascistoide* del suo movimento mi sta facendo perdere di vista la rilevanza delle opportunità di cambiamento offerte dalla sua iniziativa?
Alla fine però, l’imperativo democratico ha comunque il sopravvento: la democrazia funziona se gli anticorpi entrano in azione al manifestarsi delle minacce, senza conceder loro il tempo di concretizzarsi. Come soldati semplici, gli anticorpi non possono concedersi il lusso di valutare autonomamente se la guerra che combattono è veramente giustificata. Il rischio che un gruppo che si muove in spregio delle regole democratiche ottenga il consenso necessario a stravolgere le medesime è troppo grande rispetto a qualsiasi ideale di rinnovamento o promessa che tale incursione, una volta ottenuto un potere quasi-assoluto, ne faccia uso solo a fin di bene.
Un sistema rimane democratico fintanto che le minoranze mantengono le proprie protective provisions come diritto sancito, non come gentile concessione. Ungheria docet.
Siccome la democrazia non è l’ordine naturale, affinché sopravviva a lungo termine non ci possono essere tentennamenti.
*: sì, un’organizzazione di intenti a scopo politico che non offre alcuna garanzia circa la possibilità di organizzazione del dissenso interno e nella quale il leader può inventarsi nuove regole alla bisogna senza alcuna necessità di consultazione è un’organizzazione fascistoide. A maggior ragione se tale organizzazione costruisce il consenso con modalità top-down.
Insegnare la democrazia
Marzo 25th, 2012 § 1 comment § permalink
Recentemente ho partecipato ad una discussione on-line relativa al caso di un professore di scuola superiore che, durante le lezioni, oltre ad insegnare la propria materia, si lasciava andare a commenti di natura negazionista e razzista.
Tra i partecipanti alla discussione, i docenti erano tutti concordi nel sostenere che ben poco si può fare per limitare queste situazioni, giacché la Costituzione garantisce la libertà d’insegnamento e certamente non si può impedire a qualcuno di avere delle opinioni.
Ecco, questo post è per sostenere che tale impostazione di pensiero è una sonora asinata.
La libertà d’insegnamento è diventata al giorno d’oggi un mantello generalizzato di protezione, stiracchiato alla bisogna dagli insegnanti per proteggersi da qualsiasi forma d’intromissione nel rapporto tra docente e studente. Viene agitato come diritto universale costituzionalmente acquisito, in modo da poter accusare di fascismo chiunque auspichi una forma di controllo sull’operato dei docenti.
Tale interpretazione della norma costituzionale è, appunto, solo un’interpretazione radicale e anarchica del concetto di libertà, che non coincide affatto con le intenzioni di chi animò il dibattito in sede di stesura. Il testo del primo comma dell’articolo 33 della Costituzione Italiana, che sancisce il diritto alla libertà d’insegnamento, recita così:
L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento.
Il primo estensore di questa prescrizione fu Concetto Marchesi, del Partito Comunista Italiano, e tale rimase immutata nella stesura finale. Nel corso della discussione della prima sottocommissione dell’Assemblea Costituente, il 22 Ottobre 1946, ovvero il giorno prima che tale norma fosse approvata, Marchesi intervenne affermando che:
Io e i colleghi di parte comunista siamo disposti a riconoscere la piena Iibertà della scuola privata e l’utilità della concorrenza dell’istruzione privata, e saremmo disposti non solo a riconoscere, ma a sussidiare anche le scuole religiose, quando esse esercitino l’insegnamento in luoghi dove manchino pubblici istituti di istruzione. Quello che importa è che la cultura sia diffusa tra il popolo, qualunque sia l’insegna sotto la quale essa viene impartita; ma è anche necessario affermare in un articolo isolato la precipua funzione educativa dello Stato.
Il grassetto è mio. Il punto è proprio il concetto di educazione, che va oltre il semplice insegnamento della storia e della geografia. È innanzitutto un insegnamento morale, è l’insegnamento di valori condivisi. Evidentemente non è una materia di studio, ma è perfino più importante delle materie di studio, perché si tratta dei mattoni su cui si costruisce la nazione.
Purtroppo questa è una campana che sentono in pochi, tra i docenti e i maestri che oggi popolano le aule scolastiche. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Il rispetto per la figura del docente è ai minimi storici e spesso si sente parlare di docenti che “non sanno farsi rispettare”, senza che sia mai chiarito quale sia la strategia per ottenere il rispetto senza che sia solo un riflesso del timore. La realtà è che se il ruolo del docente si esaurisce semplicemente nel fornire informazioni ed addestrare gli alunni al raggiungimento di competenze, non si costruisce alcun piano valoriale comune, né si riconosce il ruolo di rappresentanza dell’istituzione, giacché non ci può essere rappresentanza senza responsabilità.
Invece, la responsabilità educativa è addossata unicamente alle famiglie, privando così gli allievi di quella speranza di uguaglianza sociale sancita dall’articolo 3 della Carta. Marchesi, a cui sono intitolate molte scuole della Repubblica, chiarì il punto nel prosieguo del proprio intervento:
Osservo che nella relazione dell’onorevole Moro si manifesta la tendenza a mettere la famiglia in una posizione preminente per quanto riguarda l’istruzione. Mi sembra che questa consacrazione della famiglia tenda a considerare il nucleo domestico familiare come un organismo che viva in una specie di mondo sublunare, in un’atmosfera di immobile serenità, non esposto alla molteplicità degli urti che in realta lo turbano, sino a farne talvolta un centro di disordine economico e morale in cui purtroppo il fanciullo è la vittima principale. D’altra parte mi sembra che questo dissidio tra famiglia e Stato non possa e non debba esistere. Lo Stato è la grande famiglia che deve integrare le forze, a volta difettose, dell’istituto familiare. Questa antitesi che si vuol porre tra famiglia e Stato e assolutamente inopportuna, sia nei riguardi politici, sia nei riguardi morali e sociali.
Ergo, se lo Stato non può e non deve sottrarsi al ruolo educativo che, nelle parole di Marchesi, è “l’unico strumento e l’unica garanzia dell’unità nazionale”, gli insegnanti della scuola di Stato devono essere capaci di educare, di realizzare la vera educazione civica, che non si limita certo ad insegnare la burocrazia istituzionale. Ne consegue che non possono essere considerati insegnanti qualificati coloro che in prima persona non credono nei valori della Carta Costituzionale, che con le parole e con i comportamenti dimostrano di adottare ideali fascisti.
Giuseppe Dossetti, della Democrazia Cristiana, anch’egli parte attiva della medesima sottocommissione, aveva già posto la questione nel dibattito costituente durante la sessione antecedente:
Incidentalmente (Marchesi n.d.r.) ha parlato di una finalizzazione di questa libertà (di insegnamento n.d.r.), come di tutte le altre, ma senza attribuire a questa un significato prevalente, e senza volerle dare un carattere diverso da quello che e stato dato per altre libertà, che anche l’onorevole Marchesi ha accettato, per esempio la libertà di stampa. D’altra parte, non può intendersi la libertà della scuola in termini cosi assoluti e radicali da ammettere, per esempio, che nella scuola di uno Stato democratico si possa far professione di idee fasciste.
No, la libertà d’insegnamento non è una libertà assoluta. È una libertà che, nelle parole della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, deve:
essere indirizzata al pieno sviluppo della personalità umana ed al rafforzamento del rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Essa deve promuovere la comprensione, la tolleranza, l’amicizia fra tutte le Nazioni, i gruppi razziali e religiosi, e deve favorire l’opera delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace.
Come per i magistrati esiste un codice di disciplina che definisce dei criteri di incompatibilità, al fine di renderli nemmeno lontanamente sospettabili di non servire fedelmente la Repubblica, così è necessario per le persone a cui lo Stato affida per molti anni di vita la propria progenie.
La progressiva perdita del ruolo educativo della scuola è in parte una questione di lassismo delle istituzioni, ma è anche sostenuta da una specifica corrente di pensiero (qualcuno direbbe “figlia del ’68”, ma io nel ’68 non c’ero, perciò non saprei) che ritiene che una volta instaurata la democrazia, essa possa sopravvivere indefinitamente senza essere insegnata a coloro che l’hanno ricevuta in dono e non l’hanno conquistata col sangue. Secondo i sostenitori di questa tesi, i nuovi figli della Repubblica nascono già col gene della democrazia e non occorre che lo Stato s’impegni attivamente a mantenere vivo l’ideale democratico, giacché la società nel suo complesso assolve a questa funzione semplicemente dotandoli di cultura storica, ignorando che proprio la storia insegna come, di fronte alle difficoltà, l’uomo abdica alla ragione per via della paura.
Alcuni alternativamente sostengono che il ruolo educativo della scuola è inutile, giacché le menti dei ragazzi in età scolare non sarebbero influenzabili dai docenti al punto di considerarli dei modelli educativi. Un secolo di pedagogia buttato nel cesso.
Purtroppo, a giudicare dalla recrudescenza di fenomeni neofascisti in questi ultimi anni e considerando come persone che incarnano tutt’altro che gli ideali della Costituzione abbiano ottenuto il favore di larga parte della popolazione e addirittura abbiano raggiunto i vertici istituzionali, c’è da preoccuparsi non poco dei danni che questa anarchia educativa ha prodotto nelle ultime generazioni.