C’è uno spunto interessante nell’odierno tentativo di Galatea di sbeffeggiare Baricco:
Baricco comincia con il chiedersi: “È abbastanza ovvio che per ripensare il mondo, dobbiamo iniziare dalla scuola. Cosa insegniamo e perché facciamo questo? Sono queste le domande che dobbiamo porci se vogliamo davvero ripensare una scuola efficace“. Ora è curioso che chiunque si metta a discettare sulla scuola parla sempre come se noi insegnanti non ci fossimo mai posti tali quesiti. E’ come dire che un ingegnere informatico non si è mai posto il problema di capire perché sono utili i computer, o un architetto non si è mai chiesto a cosa servano le case. No, l’intellettuale di spicco si sveglia una mattina e decide che bisogna chiedersi cosa insegniamo e perché, mentre il povero docente si dà per scontato che non se lo sia mai domandato.
Mi sono chiesto: ma se un programma va in crash o una casa crolla, c’è un modo relativamente semplice per capire cosa non ha funzionato, dov’è stato l’errore. Come mai alla domanda «Perché in Calabria non sanno la matematica?», la risposta della classe docente è di rifiutare il sistema di misura dei fallimenti con la scusa che «esistono competenze e abilità che i test non possono misurare»?
Il motivo essenziale per cui uno scrittore si può permettere di discettare di pedagogia, ma non di ingegneria è che il metodo per distinguere i professionisti dai fanfaroni è banale e orientato ai risultati.
Il discorso pubblico non può accettare di essere mediato da una classe sacerdotale, quindi finché i docenti si impunteranno per evitare la valutazione, docenti buoni e docenti cattivi finiranno tutti nel medesimo calderone, con un indice di autorevolezza pari a quello dell’uomo della strada (o di twitter).
Ieri mattina ho letto un tweet di Peppe Liberti che si lamentava di «quelli che approfittano di qualunque occasione per dire che internet son loro e gli altri non capiscono niente». Ce l’aveva con Mantellini. Poi nel pomeriggio ho letto un superbo (nel senso di presuntuoso) j’accuse del medesimo autore intitolato Il metro delle prove INVALSI, nel quale ci ragguaglia sul fatto che l’esperto di didattica è lui, mentre quelli di INVALSI non capiscono niente (e cazzeggiano troppo).
Ritengo che se vogliamo elevare la discussione pubblica oltre il Bar Sport, bisognerebbe evitare di profondersi in invettive basate su illazioni e mantenere i dubbi al rango di dubbi, senza svalutarne l’utilità. La macchina del fango prende sempre un sacco di like all’inizio, ma se poi non si è attrezzati a sostenere le accuse, si fa la figura dei cretini. Siccome Peppe Liberti cretino non è, anzi è un ottimo divulgatore scientifico, la critica al suo commento non è tempo sprecato.
Il motivo del contendere è una domanda del test somministrato ai bambini della classe seconda della scuola primaria, un test che potremmo considerare col trabochetto: la domanda pone una serie di condizioni logiche ben delineate, mentre la figura può risultare fuorviante per l’intuito di un bambino di 7 anni. Peppe si scaglia contro gli autori del test, rei a suo dire di non aver posto sufficiente attenzione nella formulazione dell’illustrazione al fine di minimizzare il rischio di incomprensione.
Innanzitutto, perché Peppe si concentra proprio su questa domanda? Dice lui: «a quanto pare, da quello che sto leggendo in queste ore in giro, è che a dare la risposta giusta son stati in pochissimi». È questo il primo errore concettuale: se lo scopo di INVALSI è una rilevazione statistica, come si può fondare un argomento sul sentito dire che precede di molto la pubblicazione di risultati ufficiali? Ammesso che vi sia un’anomalia nel rapporto tra la domanda e il tipo di risultato atteso, essa dovrebbe essere desunta da indicatori statistici che tuttavia allo stato attuale non sono ancora disponibili. In realtà la situazione è ancora più drastica: la critica arriva in maniera più solerte del documento che dovrebbe chiarire quali sono i risultati attesi.
C’è poi una questione di contenuto: Peppe inserisce l’immagine fuorviante nel contesto della propria esperienza professionale nell’ambito dei libri scolastici, nei quali spesso capita che le illustrazioni risultino ambigue, ma è proprio questo accostamento a determinare il secondo errore concettuale: mentre nell’ambito dei libri di testo sarebbe deprecabile inserire immagini fuorvianti di proposito o per inettitudine, nell’ambito dei test che misurano la capacità di ragionare, è normale l’introduzione di elementi che rendano più difficile individuare la risposta corretta per intuito. Il motivo è semplice: nella vita incontriamo continuamente fenomeni il cui comportamento è controintuitivo, perciò saper ragionare senza farci trarre in inganno dalle apparenze è fondamentale.
Per dirla con Guybrush Threepwood, eroe del lateral thinking, la X sulla mappa non è sempre il punto dove scavare.
In tutta franchezza, non so se quell’immagine sia stata coniata così di proposito o se si tratti di una svista. Non lo so per il semplice motivo che non sono ancora disponibili i razionali redatti da chi ha prodotto i test. Posso fare un’ipotesi plausibile, basandomi sul fatto che i documenti tecnici dell’anno precedente citano espressamente le medesime metodologie con tanto di accurati riferimenti alla teoria e sul fatto che i test, prima di essere somministrati in via ufficiale, sono già stati provati empiricamente su un campione di riferimento piuttosto esteso. Rimane il fatto che una svista è sempre possibile. Per Peppe Liberti invece non c’è dubbio, la svista è fatto certo e la letteratura è irrilevante: è proprio questa supponenza a determinare la debolezza della sua argomentazione. Anche ammesso che la svista ci sia, desumerlo alle condizioni attuali implica basarsi su speculazioni che certo non giustificano un atteggiamento così tranchant.
INVALSI si occupa di realizzare dei test che dovrebbero misurare statisticamente la capacità di utilizzare alcuni strumenti del ragionamento da parte degli studenti italiani di determinate classi. Strumenti che, ça va sans dire, sono indispensabili per formare future generazioni di persone consapevoli. È quantomeno ironico che sia proprio INVALSI a ricevere un attacco classificabile come critica supportata da elementi concettuali insufficienti, ovvero quel genere di aberrazione del pensiero che la scuola dovrebbe contribuire ad eliminare.
Il primo maggio scorso è stata mia commensale una professoressa di materie umanistiche, persona che considero integerrima. Durante la conversazione post-prandiale ho avuto occasione di esprimere le mie perplessità circa la levata di scudi delle sue colleghe contro le prove INVALSI: a mio avviso in quelle dichiarazioni di guerra all’INVALSI c’è un atteggiamento molto auto-indulgente e una visione della scuola antitetica al sistema competitivo che regola (o dovrebbe regolare) il mondo del lavoro.
Vi riporto per sommi capi la sua risposta:
- Nelle prove INVALSI tenute l’anno precedente durante gli esami di terza media, il tempo necessario per la correzione è stato di circa 3 ore e mezza. In pratica la cosa si è risolta in un pomeriggio.
- Rispetto ad una prova d’esame classica, la prova INVALSI prevede una procedura a salvaguardia della correttezza dei risultati che implica alcuni tempi di attesa.
- Da una consultazione tra colleghi del medesimo istituto è emerso che gli esiti delle prove INVALSI sono risultati i più aderenti all’effettivo grado di preparazione degli studenti, a differenza delle altre prove d’esame nelle quali alcuni studenti sono stati aiutati in quanto si era deciso in sede di scrutinio che andassero aiutati.
- La principale criticità riguarda gli studenti stranieri, tuttavia non si tratta di un limite specifico di INVALSI, bensì di un problema generale di come viene (non) trattata l’integrazione di studenti che hanno iniziato il corso di studi in un’altra nazione.
Considerazione del sottoscritto: alla luce di queste informazioni, sembra ancora più capziosa la polemica circa i costi sostenuti per l’instaurazione di un sistema esterno di valutazione e la critica principale nel merito della metodologia di valutazione appare come un’insofferenza verso sistemi che fotografano la situazione reale senza aggiustamenti.