Uno dei concetti base della democrazia consiste nell’equità di valore dei voti rispetto alla rappresentanza, ovvero: ciascuna circoscrizione elegge un numero di rappresentanti proporzionale al numero di elettori e ciascun eletto ha la medesima capacità di voto nell’assemblea dell’istituzione a cui prende parte. La rottura di questo criterio potrebbe determinare che alcuni cittadini abbiano più potere di altri nel determinare l’esito delle decisioni politiche.
Immaginiamo per assurdo che ciascuna regione italiana elegga lo stesso numero di parlamentari: è evidente che i cittadini della Valle d’Aosta sarebbero molto più rappresentati di quelli della Lombardia. Uno dei problemi della riforma del Senato avanzata dal Governo è proprio questo: la Valle d’Aosta e la Lombardia porterebbero al Senato il medesimo numero di senatori, con un’evidente sproporzione di rappresentatività.
Data questa premessa, qualcuno potrebbe pensare che sia lecito schierarsi a favore dell’ostruzionismo di Corradino Mineo, ma tale punto di vista non terrebbe conto dello stesso criterio che cerca di difendere. Le commissioni, infatti, sono nominate dai gruppi parlamentari e non con altri criteri, quali il voto popolare o il sorteggio, per un motivo specifico: all’interno delle commissioni si rompe il criterio di proporzionalità tra voti e rappresentanza: in ciascuna singola commissione non sono rappresentati in modo equanime i voti delle singole circoscrizioni. Per esempio può accadere che non ci siano eletti della circoscrizione Valle d’Aosta nella commissione del Senato sugli Affari Costituzionali. Dato che la Valle d’Aosta elegge un solo rappresentante, sarebbe ben difficile che egli partecipasse a tutte le commissioni.
Il cittadino della Valle d’Aosta potrebbe legittimamente sostenere «In commissione Affari Costituzionali non c’è nessuno che mi rappresenti, nessuno che ho votato o avrei potuto votare o eletto grazie al mio voto». Perciò, all’interno di una commissione, il valore dei voti degli elettori non è rispettato. Non lo è perché lo scopo di una commissione è di “preparare” il lavoro di coloro che dovranno effettivamente prendere delle decisioni in aula, dove invece il rapporto di valore è rispettato.
Quindi in commissione si preferisce adottare un sistema diverso, che è quello della rappresentanza dei gruppi parlamentari. Se un parlamentare smette di rappresentare il proprio gruppo e impedisce l’approdo in aula di un testo di legge desiderato dal proprio gruppo parlamentare, produce, attraverso la propria insubordinazione, la rottura del principio di rappresentatività di cui abbiamo parlato all’inizio perché, di fatto, i parlamentari della Valle d’Aosta non avranno l’effettiva possibilità di esprimere i propri voti e i propri emendamenti sull’argomento, anche se avevano richiesto, attraverso il proprio gruppo parlamentare, di poter discutere tale disegno di legge in aula.
Perciò, date retta, l’articolo 67 della Costituzione non c’azzecca nulla con la possibilità di rimuovere un senatore rinnegato da una commissione e tenete presente che nemmeno i senatori che decidono la sua rimozione rispondono necessariamente al mandato degli elettori. Le commissioni sono un organo propedeutico, ma non rispondono a criteri di rappresentatività tipici della democrazia, come non ne rispondono tutti gli altri organi subordinati delle Camere (collegio dei questori, ufficio di presidenza, etc). Di conseguenza una sostituzione decisa dai gruppi parlamentari secondo le regole non può definirsi un esercizio antidemocratico del potere, anzi, è vero l’esatto contrario: se venisse a mancare il criterio fiduciario tra mandanti ed emissari di un gruppo parlamentare, verrebbe minato il criterio di rappresentatività degli eletti.