Italians do it cheaper

Ottobre 3rd, 2016 § 3 comments § permalink

A quanto pare la rete non trova pace, nel tentativo di demolire qualsiasi campagna pubblicitaria del Governo. Fresca è la polemica inerente alla brochure prodotta per presentare il piano Industria 4.0, nella quale è presentato come un’opportunità per gli investitori il fatto che in Italia le retribuzioni sono più basse che in altri paesi UE considerati nostri diretti concorrenti.

Apriti cielo. La polemica, riassunta da Repubblica.it è:

E’ un vero e proprio paradosso: un governo che presenta all’estero come “vantaggio” un dato che all’interno, per i cittadini, é un dramma – e tra le prime cause della nuova emigrazione. Che i lavoratori italiani siano pagati troppo poco è un dato politicamente negativo, che chi governa deve impegnarsi a mutare attuando politiche che abbiano come obiettivo quello di dare a tutti, specialmente a chi ha un’alta formazione, opportunità di impiego più eque e dignitose dal punto di vista della retribuzione.

Chiunque abbia ricevuto una proposta di lavoro da recruiters esteri sa che dato un determinato ruolo da ricoprire, il range di compenso dipende in modo significativo dal costo della vita nel luogo di lavoro. E così capita che lo stesso ruolo, in aziende analoghe per fatturato e dimensione, a Berlino valga 55K Euro, a Londra 65K sterline e a Ginevra 100K franchi svizzeri.

D’altro canto, se vi sedete al tavolo di un ristorante a Ginevra, difficile che una bistecca la paghiate meno di 50 Euro. Se vi trasferite a Londra, con il denaro con cui a Padova paghereste l’affitto di un appartamento con generose metrature in centro, difficilmente spunterete qualcosa di più vicino alla City della zona 3, che vuol dire almeno mezz’ora di commuting, nella migliore delle ipotesi. Tutti gli expat hanno iniziato cercando di farsi un’idea di quanto costa un surgelato, un appartamento, un paio di jeans nella città ambita usando numbeo.comQui potete farvi un’idea dei costi al metro quadro degli immobili nelle capitali del mondo. Londra ($34,531) costa il 339% in più di Roma ($7,849).
La battuta di Gasparri sui lavapiatti a Londra poteva suonare denigratoria, ma fotografa un elemento semplice: per una persona con una posizione lavorativa affermata in Italia e un piccolo patrimonio, trovare un’opportunità di lavoro a Londra che consenta il medesimo stile di vita e magari l’accantonamento di qualche risparmio è tutto fuorché scontata, nonostante gli stipendi lordi siano decisamente più invitanti di quelli nostrani.

Parimenti, ingegneri ultra-qualificati che vivono ad esempio in Polonia o in Lituania hanno compensi nell’ordine del 20-25% più bassi di quelli italiani, pur conducendo delle vite altrettanto dignitose. Se pensate che questo sia solo un fenomeno europeo, vi invito a dare un’occhiata a questo grafico:

Sapete dove sono cresciuti parecchio gli stipendi medi negli ultimi 10 anni? A Dublino, grazie all’approdo delle grandi multinazionali che vi si sono stabilite sfruttando la bassa imposizione fiscale, la diffusione della lingua inglese e il costo della vita piuttosto vantaggioso rispetto a quello londinese.

Visto che la brochure del Governo era una pubblicità, la menzogna era comprensibile: l’offerta di “highly skilled workers” non è comparabile con quella dei nostri partner d’oltralpe, i quali hanno buon gioco nell’attrarre anche competenze dall’estero. Coloro che si sono lamentati della brochure governativa tendenzialmente non rappresentano il target di quella comunicazione e dovrebbero farsene una ragione: se c’è un’opportunità per l’Italia di aumentare le retribuzioni senza ridurre gli investimenti è quello di attrarre capitali esteri grazie (anche) al costo del lavoro più competitivo rispetto ai paesi che hanno un costo della vita nordico.

La politica, spiegata bene

Settembre 7th, 2016 § 0 comments § permalink

«An important difference between good and bad negotiators is that bad negotiators tend to think of a negotiation as a zero-sum game.

Imagine we’re negotiating over a cake. In a zero-sum negotiation if I get one more slice, you get one less. Any gain I make comes at your expense.

This seems obviously true with cake, right? So what makes other negotiations any different?

Ah, but it’s not actually true for cake. What if I hate corner pieces and you love them? What if I really like the cherries? What if I’m full and you’re starving, but you’ll agree to treat me to my favorite cake next time?

Of course, when I posed the question I didn’t mention anything about cherries or my feelings on corner pieces. It might seem like I just made it all up.

But this is exactly what good negotiators do. They bend the rules. They question assumptions and ask unexpected questions. They dig to find the core what everyone values and look for creative ways to widen the terrain of negotiation.»

— Haseeb Qureshi @hosseeb

Dialogo sui massimi sistemi dell’istruzione

Agosto 24th, 2016 § 0 comments § permalink

A: «Senti un po’, ma secondo te la matematica e la fisica sono cultura? Intendo, non “cultura” nel senso di sinonimo di conoscenza, ma cultura intesa come bagaglio di nozioni e principi che determinano l’identità di un popolo o di un gruppo.»

B: «Beh, sì, esiste una storia della matematica e della fisica, come esiste una storia dell’arte, popoli diversi che in epoche diverse sono stati determinati dalla scienza.»

A: «Okay, ma quello è il passato, oggi qualsiasi scoperta importante in ambito fisico è fatta da gruppi di scienziati che rappresentano ogni parte del globo e quando un matematico dimostra un teorema, nel giro di millisecondi la sua scoperta diventa patrimonio dell’umanità grazie a Internet. Diresti mai che il web è britannico come il suo creatore o svizzero come il posto in cui è stato fisicamente creato?»

B: «Okay, in questo senso la fisica e la matematica oggi non costituiscono più l’identità di un popolo, ma costituiscono comunque l’identità dell’umanità.»

A: «Però voglio spingermi oltre: facendo un ragionamento platonico, i concetti della matematica in qualche modo prescindono da questa umanità. Se un cataclisma globale producesse un reboot del genere umano, con una nuova generazione di esseri senzienti che iniziano la loro esperienza dalle caverne e dalle clave, nel giro di qualche millennio arriverebbero comunque alle nostre medesime conclusioni. Magari il linguaggio dei simboli che userebbero per rappresentare le idee sarebbe diverso dal nostro o l’ordine delle scoperte alterato, ma anche se vivessimo su continenti fatti in modo diverso, prima o poi inventerebbero un sistema geometrico basato sugli stessi assiomi di quella che noi chiamiamo “geometria euclidea” e in quel sistema una forma costituita da tre segmenti uniti tra di loro alle estremità formerebbe tre angoli complessivamente pari ad un angolo piatto. Parimenti per la fisica, scoprirebbero il numero di Avogadro e le altre costanti fondamentali, anche se gli darebbero altri nomi.»

B: «Okay, quindi?»

A: «Per la letteratura o la musica non è così: se tutta la nostra cultura andasse perduta, chi verrebbe dopo non saprebbe mai dei sonetti di Shakespeare o se trovasse un reperto archeologico che gli consentisse di riascoltare la nona di Beethoven, potrebbe considerarla un terribile frastuono. I concetti della matematica e della fisica sono talmente universali che non possiamo considerarli un elemento identitario, perché qualsiasi civiltà in grado di elaborare una logica  non contraddittoria la cui forma deriva dalla struttura stessa dell’universo arriverebbe alle medesime conclusioni.»

B: «Va bene, diciamo che i concetti della matematica, pur essendo conoscenze non sono cultura nel senso identitario del termine. Perché vuoi stabilire questa distinzione?»

A: «Tutto nasce da una domanda: qual è il senso dell’apprendimento? Vorrei però escludere da questo ragionamento la matematica e le altre scienze il cui scopo è rappresentare lo stato delle cose nell’universo: fisica, chimica, biologia e affini. Per queste discipline, il senso dell’apprendimento non è messo in discussione: si tratta di conoscenza della realtà pura e semplice. Il fatto che sia universale elimina qualsiasi necessità di un giudizio di valore. Pure se io fossi solo nell’universo e rinunciassi a tutta la mia storia passata, la conoscenza della logica e della scienza mi darebbero potere sul mondo.»

B: «Okay, è un ragionamento un po’ superficiale, dal momento che la scienza affonda le radici nella filosofia, quantomeno per l’aspetto epistemologico, ma diciamo per semplicità che mettiamo da parte matematica e scienze e il relativo bagaglio metodologico. Cosa rimane? Letteratura, storia, arte?»

A: «Sì, perché ci interessa apprenderle?»

B: «Beh, pensa alle pitture rupestri preistoriche: l’arte è stata una necessità dell’uomo ben prima della matematica.»

A: «Certo, l’istinto della creatività è innegabile, in tutte le sue forme. Tuttavia, creare e apprendere sono due fenomeni in qualche modo slegati: conosco persone che nonostante un decennio di lezioni settimanali di storia dell’arte, non saprebbero produrre nemmeno le pitture rupestri della caccia ai bisonti.»

B: «Una parte del tempo speso ad apprendere serve a darci delle competenze, degli strumenti per orientarci nella società. In questo senso utilitaristico, l’apprendimento della cultura umanistica ci trasmette dei simboli e delle tecniche che usiamo per relazionarci con gli altri.»

A: «Vero, ma nemmeno questo obiettivo vorrei mettere in discussione. Tuttavia noi italiani spendiamo nell’apprendimento circa un quinto della nostra vita. Non sono convinto che tutto il tempo speso serva solo per trasmetterci delle competenze sociali. Se questo fosse l’unico obiettivo, bisognerebbe criticarne aspramente il metodo: qual è l’utilità relativa di aver appreso il motivo per cui si dice “il pomo della discordia” e mille altre frasi desuete e magari non capire una parola di Cinese?»

B: «Infatti c’è una discussione pubblica sul fatto che i programmi d’istruzione non tengano il passo con la modernità e col fatto che la cultura si sta globalizzando con un’accelerazione tale che è difficile tenere il passo, dato un sistema di evoluzione culturale basato sulla sedimentazione e sul pensionamento delle generazioni precedenti. Se ti ricordi, qualche mese fa abbiamo letto un articolo di Claudio Giunta che si lamentava dell’inutile nozionismo letterario.»

A: «Sì, ma io penso che quei programmi siano così costruiti non per una svista. Al liceo si studia Lucrezio e non i Monty Python (e anzi si snobba apertamente la cultura pop), anche se finito il liceo le opportunità di conversare di Lucrezio sono piuttosto modeste, per non dire inesistenti, a meno che uno non sia uno di quegli intellettuali con la erre moscia, la casa ai Parioli e l’abbonamento a Micromega. Tutto sommato i miei colleghi che hanno fatto l’istituto tecnico non conoscono il De Rerum Natura (o hanno fatto il liceo, ma quel giorno erano assenti/dormivano/cazzeggiavano col telefono) eppure vivono benissimo lo stesso.»

B: «Okay, ma tu che lo conosci, ne faresti a meno?»

A: «Certo che no, ma è il medesimo fenomeno secondo cui, una volta assaggiato un vino pregiato, non ci si accontenta più del vino del discount. Da questo punto di vista, tutto l’impianto dell’apprendimento umanistico è un gigantesco sistema di creazione di clienti dell’industria culturale che, per carità, sono contento che fatturi e aumenti il PIL, ma come dice Raffaele Ventura, se la gente mette su famiglia a quarant’anni anziché a venti, perché tutto l’apparato culturale è un mega schema di Ponzi in cui gli insegnanti di lettere producono principalmente aspiranti insegnanti, non mi sembra così sostenibile. Il 99% dei soggetti che apprendono cultura in questo senso ristretto diventano semplicemente fruitori più esigenti, ma non producono nulla, o comunque ciò che hanno appreso non li aiuta a produrre contenuti migliori. Non sarebbe più semplice far studiare storia solo a quelli che intendono fare gli storici di mestiere?»

B: «Ma infatti in molte parti del mondo è così, la specializzazione inizia molto prima. Qui in Italia siamo molto legati al concetto che la cultura serve a formare dei cittadini consapevoli.»

A: «Ora mi dovresti spiegare che consapevolezza civica si raggiunge grazie a Petrarca. Non era meglio una lettura di Armi, Acciaio e Malattie?»

B: «Se qualcuno non ti aiuta a comprendere la bellezza della letteratura italiana, come puoi pensare di essere attrezzato per difenderla dal suo naturale decadimento? Vedi che gira gira, torniamo a Lucrezio?»

A: «Un po’ autoreferenziale: perché dovrei difendere la letteratura italiana e non quella francese? Il giudizio di valore non dovrebbe prescindere dalla partigianeria nazionalista?»

B: «Guarda che neppure la cultura francese potrebbe prescindere da Petrarca.»

A: «Forse Petrarca non è l’esempio adatto. Sicuramente nella mia storia scolastica sono stato misurato su decine di opere dimenticabilissime. Comunque, c’è una cosa che non mi torna.»

B: «Cosa?»

A: «Che quando ho iniziato a studiare, mi hanno detto che studiare apre la mente, che grazie all’infarinatura di quelle dieci materie, avrei imparato a pensare.»

B: «Embé? Non è così?»

A: «Forse. Una cosa che ho imparato è che un fenomeno non si giudica dal singolo caso. Mi guardo intorno, leggo le statistiche, le intenzioni di voto, gli status su Facebook e la storia che mi raccontano è un po’ diversa: gente che è uscita dal circuito dell’istruzione negli ultimi 10 anni con voti stellari, gente che sembrava veramente cazzuta nei temi sulla rivoluzione francese, e oggi condivide contenuti nello spettro che intercorre tra “al rogo gli zingheri” e “non siamo mai stati sulla Luna”.»

B: «Insomma, il Paese reale.»

A: «Sai quel modo di dire, sull’allievo che supera il maestro? A me pare che il fallimento dell’istruzione sia che non punta a produrre allievi che superino i maestri. Se tutto quello che la scuola è in grado di produrre è infarinatura per gente motivata unicamente dal voto, rimandando la polpa allo studio specialistico, essa non può considerarsi allo stesso tempo produttrice di menti consapevoli.»

B: «Beh, non occorre essere onniscienti per essere menti consapevoli.»

A: «Ti dico come la penso: il mondo della cultura è una piramide: alla base della piramide ci sono gli schiavi che fanno il lavoro pesante. Pensa al tuo lavoro in archivio, digitalizzare documenti, confrontare, tradurre, analizzare, accorpare, riassumere, collegare migliaia di informazioni, la maggior parte delle quali ininfluenti per la vita culturale della nazione. Più in alto si sale con la piramide e più incontriamo persone che grazie alla carriera e alla notorietà sfruttano il lavoro dei sottostanti per produrre analisi di alto livello, divulgazione, partecipazione a quei consessi in cui si cerca di condizionare la società.
Rispetto alla conoscenza vera e propria, la società riceve una forma digerita e semplificata (leggi: ridotta) che è come il bagliore rifratto nella grotta platonica. Tutto ciò funzionava finché c’era un criterio di fiducia, ossia: la società, che non è in grado di elaborare un pensiero autonomo in quanto sprovvista di materia prima (la conoscenza), si fida del fatto che chi è specializzato in quella funzione lo faccia per suo conto.»

B: «Quindi secondo te l’idea del cittadino consapevole è una chimera.»

A: «Certo che lo è, ma non perché lo dico io, è una semplice questione di logica, o di teoria dell’informazione, se vogliamo. Walter Lippmann c’era già arrivato nel ’22: in Public Opinion scrive che un essere umano non ha la capacità di conoscere il mondo leggendo un giornale al giorno nel metrò. Oggi al posto della carta c’è Facebook o Repubblica.it, ma il concetto è identico. Il fenotipo grillino non è altro che la dimostrazione di cosa succede in una comunità specializzata quando, parafrasando San Paolo, le mani dicono alla testa “non abbiamo bisogno di te”.»

B: «Mi stai dicendo che visto che tanto ci dobbiamo fidare, non ha senso studiare?»

A: «Sto facendo una congettura: secondo me il divario in termini di consumo culturale tra i professionisti del settore e il resto della popolazione è molto più elevato in Italia che in Svezia o in altre nazioni dove c’è un approccio più pragmatico all’istruzione, intesa come volksausbildung e non come fenomeno elitario sulla base del quale classificare la società. Inoltre, altrove la produzione culturale non è così sbilanciata in favore dell’elite culturale. In questo senso, una larga fetta di coloro che sono specializzati nel ruolo di catena di trasmissione tra i produttori della conoscenza e la società, docenti in primis, stanno fraintendendo il proprio ruolo.»

B: «In che senso?»

A: «Analizzo il comportamento delle persone. Nel comportamento di molti insegnanti riconosco uno schema: la frustrazione come malattia professionale. Una frustrazione che deriva dall’essere stritolati dal modello stesso di società che essi stessi hanno contribuito a costruire.
Mi spiego meglio: nella società contadina in cui si è affermato il ruolo del maestro come figura retribuita dalla tasca pubblica, esso incarnava l’autorevolezza. Con tale fardello sulle spalle, gli insegnanti hanno diffuso i principi illuministici della cittadinanza consapevole e della necessità di autonomia di pensiero delle società liberali.  Ora che tale traguardo si sta realizzando, si rendono conto di aver segato il ramo su cui erano appollaiati. E questo crea tensioni, nervosismo, nevrosi. Trattare il resto della comunità da somari impenitenti, quando non esplicitamente mentecatti, è ormai una cifra stilistica. È tutto un continuo far notare che “no, la tua ricerca su wikipedia non vale quanto il mio PhD”.»

B: «Insomma, sotto sotto è una scontrosa richiesta di fiducia.»

A: «Già, ma purtroppo non si può guadagnare la fiducia pretendendola. Gli insegnanti hanno educato intere generazioni all’esercizio cartesiano del dubbio e oggi vorrebbero ripristinare una società classista in cui è la casta degli eruditi che detta il protocollo. Ricordo un articolo di qualche settimana fa che parlava esplicitamente di “tentazione di addomesticare la democrazia”. Altrove, dove il docente è approdato ad un ruolo più compatibile di facilitatore culturale, queste frizioni sono molto meno marcate. Non è un caso che invece in Italia fenomeni di snobismo culturale come il grammar-nazismo e la fossilizzazione linguistica siano ipertrofici.»

B: «D’altro canto l’arrabbiatura è comprensibile: in Italia sono fortemente sottopagati.»

A: «Il fatto è che la società liberale misura il valore dai risultati più che dall’impegno, e se depuriamo i risultati dall’inflazione dei voti, i risultati sono miseri. Il patto era che le arti del trivio e del quadrivio avrebbero prodotto cittadini consapevoli, ma questo impellente bisogno di riacquistare autorevolezza è la prova evidente del fallimento delle scelte educative. La maggior parte dei personaggi che hanno incarnato il ruolo storico di liberi pensatori erano degli outsider: sono diventati famosi per questo. Al contrario, il dubbio elevato a sistema produce antivaccinisti.
Nell’Italia odierna, la correlazione tra censo e risultati scolastici è ancora fortissima, una dimostrazione di più che la scuola non sta facendo la differenza. Incrementare le retribuzioni in queste condizioni, forse non se ne rendono conto, vuol dire espellere dal mercato del lavoro un buon 40% di insegnanti non qualificati.»

B: «Va bene, ma quindi cosa proponi?»

A: «Onestamente, non ho una ricetta, potrebbe essere troppo tardi per correggere la rotta, tuttavia di una cosa sono sicuro: gli insegnanti e gli altri attori culturali pagati con denaro pubblico, quando sono frustrati, sono un cancro da estirpare. Mi dispiace se sono vittime di questo burn-out collettivo, ma questo circolo vizioso della sfiducia va interrotto e lo snobismo culturale è tossico per la convivenza civile. Finché svolgeranno una funzione sociale così cruciale per la vita democratica del Paese, finché saranno lo strumento chiave per la realizzazione del progetto culturale egalitario di Condorcet, hanno una responsabilità sociale come i magistrati, responsabilità che non si ferma una volta timbrato il cartellino d’uscita.»

 

Noi e l’Orrore

Agosto 12th, 2016 § 1 comment § permalink

Qualche settimana fa, un’amica in visita in un paese asiatico ha testimoniato su Facebook il proprio stupore per essersi riscoperta in qualche modo razzista nei confronti della popolazione locale. Si trattava di un sentimento a pelle. Ha scritto:

«Incredibilmente, almeno per me, ho scoperto di essere razzista. E no… è che è qualcosa di interiore ed irrazionale e fortissimo. Ci vuole tutta la razionalità e controllo del proprio sentire per tenerlo a bada. Sono basita.»

Penso che ci voglia molto coraggio e capacità di autoanalisi per fare un’ammissione del genere. La realtà è che lei non è da sola, perché siamo tutti razzisti, inevitabilmente. Il punto è solamente cosa vogliamo fare a riguardo.

L’ammissione della propria natura è un primo passo importante per capire i meccanismi con cui essa si insinua e ci condiziona, mentre ho l’impressione che non di rado la società s’illuda che attraverso l’uso pedagogico di informazioni traumatiche e l’evoluzione dei costumi, si possa dichiarare estinto il pericolo.

La scorsa settimana ho visitato Berlino assieme alla mia compagna. Abbiamo camminato decine di chilometri in tutti i luoghi simbolo del nazismo, della Shoah, della persecuzione politica, di muri che spezzano delle vite, dello sterminio di oppositori politici, disabili, omosessuali, soldati, profughi, fuggiaschi, persone qualunque, da parte di chiunque. Abbiamo letto ogni singola targhetta, abbiamo ascoltato ogni numero delle audioguide, abbiamo seguito ogni tappa di questa infinita via crucis di morti, abbiamo pagato ogni biglietto di questo parco a tema dell’Orrore umano che è Berlino.

Tutto questo Orrore, concentrato in una volta, chiede solo silenzio.

E quando abbiamo finalmente rifatto le valigie (dico finalmente perché ci siamo portati a casa dei macigni oltre ai vestiti, ma è stato necessario), quando siamo tornati a casa, ho ripensato alla questione di ammettere la propria natura. Questa attitudine educativa del “mai più quest’Orrore”, di cui molti luoghi a Berlino sono intrisi, punta all’uso del trauma per farci sentire estranei, punta a farci prendere le distanze.

Ma purtroppo non sta funzionando. Il Mediterraneo è un immenso muro di Berlino fatto d’acqua, eppure il nostro comportamento accetta impassibile delle eccezioni rispetto alla Fraternité che sarebbe auspicabile da parte di chi sta meglio. Se ce ne andiamo da Berlino con in tasca la presunzione di essere meglio dei carnefici, non avremo imparato nulla.

Quello che ho imparato a Berlino è che l’ammissione della propria natura è necessaria: se fossi nato nella prima metà del secolo in Germania, probabilmente sarei stato nazista, come sarei stato fascista se fossi nato in Italia nel medesimo periodo. È una ideologia affascinante, un’idea di società che ti fa sentire parte di qualcosa. La Volksgemeinschaft è un concetto pervasivo e sotterraneamente presente anche in molte comunità odierne. Suggerisco la visione del film Die Welle a chi vuole farsi un’idea di come funziona.
In Italia ci si preoccupa che qualche ministro dell’istruzione dal passato di destra possa favorire il revisionismo storico, ma la retorica dell’antifascismo non è meno revisionista: ridicolizzare la propaganda dell’epoca non aiuta ad immedesimarsi, a capire come un certo tipo di messaggio possa essere accolto senza riserve. Vincere e vinceremo: sarei stato senz’altro lì sotto ad applaudire. È necessario conoscere la parte nazista che alberga in ciascuno di noi, se vogliamo combatterla con successo.

Potrei essere nazista e ho deciso di fare qualcosa a riguardo.

 

Docenti che si sentono stocazzo

Luglio 10th, 2016 § 3 comments § permalink

Ho sempre un po’ di sospetto per chi si sente stocazzo al punto di esprimere critiche sull’operato altrui senza essere esperto del relativo settore. Tra quelli che esprimono opinioni infondate, quelli che contestualmente si sentono stocazzo sono sicuramente i più irritanti. Tecnicamente si definisce “effetto Dunning-Kruger”, ovvero la propensione a sovrastimare le proprie competenze. Ci sono varie fenomenologie che portano a questo tipo di situazione: la pura e semplice mitomania, la presunzione di apprendere solo sbirciando Wikipedia, la mancanza di fiducia nel genere umano, e così via.
Una particolare fattispecie ricorrente di questa circostanza riguarda alcuni degli insegnanti che contestano le metodologie di INVALSI, come ad esempio Leonardo Tondelli in questo post. In parte la ragione dev’essere legata al fatto che l’altrui misura ciascun dal proprio core: i dipendenti di INVALSI sono parimenti stipendiati dal MIUR e questo forse spinge Tondelli a ritenerli dei mentecatti ad avere un certo pregiudizio nei loro confronti.

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Il desiderio di imparare

Novembre 22nd, 2015 § 0 comments § permalink

Oggi tra gli insegnanti è tutto un condividere l’ennesimo articolo sulla scomparsa delle materie inutili e annesso deperimento del modello educativo. Ne approfitto per contestarne l’approccio, in quanto mai come in questo caso ritengo valido il detto secondo cui ciò che non è soluzione è spesso problema.

Un po’ di tempo addietro dallo Scorfano si parlava di difficoltà di indurre gli studenti alla lettura. Io ho espresso una considerazione che vale in termini generali per tutto il fenomeno dell’apprendimento: è il desiderio che muove l’interesse. La scuola ideata come un luogo dove imparare informazioni che saranno forse utili in un tempo che verrà (che poi non viene mai, alla fine) non fornisce alcuno stimolo, se non per quelle materie di cui si percepisce un’utilità pratica, competenze spendibili. E in Italia, data la cronica distanza dell’insegnamento dalla realtà produttiva, manco quella. Quindi si riduce sempre di più ad un pezzo di carta, da ottenere il prima possibile e con meno impedimento possibile.

In questo contesto, invece di lavorare sulla causa, il desiderio (ovvero la mancanza di), gli insegnanti si rannicchiano in quel fenomeno reazionario noto come “salvare il salvabile”, con la stessa cristallizzante dedizione donchisciottesca con cui la Crusca ammonisce inutilmente gli utilizzatori del piuttosto-che disgiuntivo. Peggio, la miopia è non cogliere il fatto che il comportamento dei genitori, più interessati alla media che alla testa, è conseguenza, come lo è il rotolamento di una sfera su un piano inclinato, e non causa dello sfacelo.

Forse il problema, ha ragione Douglas Adams, è di natura generazionale: di fronte ad una cultura ed una modalità di interazione pop difficili da manipolare da parte di una generazione di insegnanti tra le più vecchie del mondo, si preferisce l’autismo dell’aoristo, indignato ma sostanzialmente ininfluente.

Ora che finalmente è morto il vostro paladino (ciao Giorgio), nel tentativo di scuotere le coscienze di quegli 1,5 lettori/mese che passano di qua, farò quindi coming out: lo show di Baricco che spiega una pagina della recherche mi ha fatto venire miliardi di volte più voglia di leggerla di qualsiasi suggerimento o non-suggerimento circa le opere imprescindibili. Le quali opere, saranno per loro natura sempre più del tempo che una persona priva di rendite ereditarie ha a disposizione, stante l’attuale aspettativa di vita e l’andamento delle funzioni cognitive.

Il mio suggerimento per non essere travolti è semplice: scendete dal cavallo del pensare da ricchi e vivere da poveri e iniziate a vendere la vostra mercanzia.

Docenti e autorevolezza

Giugno 14th, 2015 § 1 comment § permalink

C’è uno spunto interessante nell’odierno tentativo di Galatea di sbeffeggiare Baricco:

Baricco comincia con il chiedersi: “È abbastanza ovvio che per ripensare il mondo, dobbiamo iniziare dalla scuola. Cosa insegniamo e perché facciamo questo? Sono queste le domande che dobbiamo porci se vogliamo davvero ripensare una scuola efficace“. Ora è curioso che chiunque si metta a discettare sulla scuola parla sempre come se noi insegnanti non ci fossimo mai posti tali quesiti. E’ come dire che un ingegnere informatico non si è mai posto il problema di capire perché sono utili i computer, o un architetto non si è mai chiesto a cosa servano le case. No, l’intellettuale di spicco si sveglia una mattina e decide che bisogna chiedersi cosa insegniamo e perché, mentre il povero docente si dà per scontato che non se lo sia mai domandato.

Mi sono chiesto: ma se un programma va in crash o una casa crolla, c’è un modo relativamente semplice per capire cosa non ha funzionato, dov’è stato l’errore. Come mai alla domanda «Perché in Calabria non sanno la matematica?», la risposta della classe docente è di rifiutare il sistema di misura dei fallimenti con la scusa che «esistono competenze e abilità che i test non possono misurare»?

Il motivo essenziale per cui uno scrittore si può permettere di discettare di pedagogia, ma non di ingegneria è che il metodo per distinguere i professionisti dai fanfaroni è banale e orientato ai risultati.
Il discorso pubblico non può accettare di essere mediato da una classe sacerdotale, quindi finché i docenti si impunteranno per evitare la valutazione, docenti buoni e docenti cattivi finiranno tutti nel medesimo calderone, con un indice di autorevolezza pari a quello dell’uomo della strada (o di twitter).

Straw-man Manconi e l’omicidio stradale

Giugno 13th, 2015 § 1 comment § permalink

Gira da ieri un articolo di Luigi Manconi il cui scopo è sostenere l’insensatezza del disegno di legge sull’omicidio stradale.  Per farlo, inanella un paio di straw-man arguments degni di nota:

Se i morti per incidente stradale, sono passati, nell’ultimo quarto di secolo, dai 6.621 dell’anno 1990 ai 3.385 del 2013, come è possibile parlare oggi di “emergenza” a proposito di questa indubbia tragedia?

Alla riduzione drastica del numero complessivo di incidenti mortali hanno contribuito soprattutto i miglioramenti alla sicurezza degli autoveicoli e in misura minore i sistemi di controllo della velocità tipo Tutor, mentre la fetta di incidenti determinati dall’abuso di alcool e sostanze stupefacenti si sono ridotti di una percentuale molto inferiore. Usare la serie storica degli incidenti mortali maschera la dinamica specifica degli incidenti causati dallo stato di ebbrezza dei conducenti, che ha avuto un declino molto meno ripido, circa il 40% negli ultimi 15 anni contro il 50% del complessivo (vedi serie storica rinvii a giudizio per omicidio colposo ex art. 589, 2° comma).

In compenso, le violazioni all’art 186 c.d.s. sulla guida in stato di ebbrezza che hanno comportato una condanna definitiva, dal 2004 al 2011, ultimo anno di rilevazione ISTAT, sono passate da 29.977 a 49.995, +60% e il trend è in crescita.

Ma ciò come esige uno stato di diritto – nella giusta misura e secondo il fondamentale principio della proporzionalità: tenendo conto, cioè, delle circostanze e del grado di consapevolezza dell’autore del reato (e, quindi, della sua colpevolezza). Per questo motivo, la giurisprudenza ha già articolato una serie di risposte sanzionatorie che vanno dalla minima punizione dell’omicidio colposo a quella massima dell’omicidio volontario. Non più di una settimana fa si è discusso dell’imputazione di omicidio volontario, mossa a carico dell’intero equipaggio di un’auto che ha ucciso una donna e provocato numerosi feriti in un quartiere romano. Un reato che prevede pene non inferiori a 21 anni di carcere. Che bisogno c’è, pertanto, di duplicare questa ipotesi di reato istituendone una autonoma (l’ “omicidio stradale”, appunto, oltre alle lesioni personali stradali)?

Il senatore, per giustificare la sua invettiva contro l’inasprimento delle pene per l’omicidio prodotto come conseguenza dello stato di ebbrezza, sventola un caso che, per quanto ne sappiamo, non ha nulla a che vedere con lo stato di capacità psicofisica degli occupanti del veicolo, i quali invece erano mossi dalla volontaria determinazione a fuggire e hanno accettato i rischi connessi al loro comportamento, determinando il dolo eventuale. Invece, il senatore finge di ignorare che l’attuale stato delle cose è che l’accusa di omicidio volontario per un drogato che si mette alla guida e fa Carmageddon sui pedoni è un’accusa tirata per i capelli, in quanto il giudizio prevede una valutazione dell’elemento soggettivo, ovvero nel caso dell’omicidio volontario la determinazione ad uccidere o quantomeno la capacità di determinare a priori il rischio, difficilmente ravvisabile in una persona che a malapena riesce a tenere in mano un volante.
È per questo motivo, che all’atto pratico, nell’incapacità di provare il dolo eventuale, la stragrande maggioranza dei procedimenti penali per “omicidi stradali” si concludono con la condanna ex art 589 2° comma con pene di 2 anni sospese con la condizionale, grazie al rito abbreviato che riduce la pena di 1/3 e al fatto che il giudice applica le attenuanti generiche per gli incensurati comminando il minimo della pena. Considerando che la suddetta fattispecie penale non è soggetta ad arresto in flagranza ai sensi dell’art 380 c.p.p, in pratica il reo non si fa un giorno di carcere, alla faccia della proporzionalità invocata.

A quanto pare, quindi, il bisogno del legislatore è di definire che esiste una fattispecie notevole per numero di eventi criminosi nella quale, pur mancando l’esplicita volontà di uccidere, c’è la messa in atto di un comportamento palesemente in spregio della vita umana, che sta determinando la quasi totalità dei morti uccisi senza dolo, e per la quale, evidentemente, il principio di prevenzione generale non sta funzionando.

P.S.: La vera gag di tutta questa faccenda è che Manconi parla di populismo penale e i suoi sostenitori nelle chat e nei forum lo appoggiano sostenendo che «non serve una nuova legge, basterebbero pene esemplari», che evidentemente in quanto esemplari non sarebbero comunque eque.

L’esercito dei lavapiatti digitali

Giugno 12th, 2015 § 0 comments § permalink

Alfonso Fuggetta ha recentemente pubblicato un articolo circostanziato sull’italica cronica mancanza di competenze medio-alte nell’ambito IT. La fotografia della situazione è azzeccata, tuttavia l’invocazione finale di un’azione salvifica da parte di un ipotetico pubblico di decisori imprenditoriali e politici mi sembra un po’ ingenua e vorrei provare a spiegare il mio punto di vista con un esempio.

Tra i lavori identificati dalla generica etichetta Core Professionals nel grafico “Composition of the ICT Workforce in Europe” citato da Fuggetta (l’originale a pag. 7 di questo documento) c’è la professione dello sviluppatore di software. La maturity di uno sviluppatore software è sostanzialmente rappresentabile in una scala salariale che mira a retribuire essenzialmente la complessità dei progetti che il lavoratore è in grado di affrontare.

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Fog in channel?

Giugno 7th, 2015 § 1 comment § permalink

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