Nel libro Public Opinion di Walter Lippmann, pubblicato nel 1922, c’è un capitolo sull’uso delle parole dal quale vorrei trarre una breve ma illuminante citazione:
Le parole, come il denaro, sono simboli di valore. Esse rappresentano un significato, perciò, come il denaro, il loro valore rappresentativo va su e giù. (…) Alcune nazioni tendono costituzionalmente ad attenuare, altre ad esagerare. Quello che il Tommy inglese chiamava un luogo insalubre poteva esser descritto da un soldato italiano solo grazie a un ricco vocabolario, aiutato da una mimica esuberante. Le nazioni che attenuano mantengono solida la loro moneta verbale. Le nazioni che esagerano soffrono di un’inflazione nel linguaggio.
Applichiamo questo concetto ai giorni nostri. Beppe Grillo che non crede di aver offeso Rodotà è sincero nel pensarlo: il valore del suo discorso pubblico è talmente svalutato che se usassimo lo stesso metro di misura per le catilinarie, ormai risulterebbero carezze. Esiste quindi una scissione nella lingua: da parte una moneta borghese in cui la moderazione è essenzialmente una riserva di valore e dall’altra la lingua della folla che ricorda i rubli all’inizio degli anni ’90.
Anche per le parole vale il principio che la moneta cattiva scaccia quella buona: le élite culturali sono sempre più distinguibili e separate dal popolino, mentre giornalisti e opinionisti diventano cambiavalute tra i due sistemi.
È essenzialmente questo il modo in cui il sistema Grillo acquisisce il suo potere: drena il valore delle parole dal sistema inflazionando il mercato con un’offerta di violenza comunicativa senza precedenti. Per ottenere il silenzio delle menti, si produce il rumore assoluto. Quando la marea si ritira, non rimangono che urla, strilli e strepitii privi di significato. Infine, l’esercito di Mordor si mette in marcia al ritmo di Ro-do-tà, ro-do-tà, ro-do-tà…
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